Violenza ostetrica, come si definisce e come si affrronta

  • Carlotta Jarach Micaela
  • Uniflash
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Il recente, tragico caso che ha visto la morte di neonato per schiacciamento da parte della madre, addormentatasi per la stanchezza dopo numerose ore di travaglio ha riportato all'attenzione dei media italiani la questione della violenza ostetrica (VO), un termine che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce l'abuso durante il parto sotto forma di negligenza, abuso fisico e/o mancanza di rispetto. La stessa OMS in un position paper del 2014 [1] delineava le azioni fondamentali da intraprendere a vari livelli – soprattutto da parte dei sistemi sanitari stessi – per la sua prevenzione.

 

Violenza di genere

Considerata una forma di violenza di genere, la VO è stata descritta per la prima volta in America Latina nei primi anni 2000 [2] ed è diffusa,  e in crescita, anche nei Paesi europei [3; 4].

Esaminando la letteratura scientifica in materia, si scopre però che la percezione dell’abuso da violenza ostetrica sembra fortemente associata alla mancanza di comunicazione tra il personale sanitario e la gestante, in presenza di un comportamento autoritario e paternalista, più che con problemi medici veri e propri. Per questo coinvolgere attivamente le donne nei processi decisionali intorno al parto e al post parto sembra essere funzionale a ridurre il fenomeno; le gestanti più coinvolte sembrano fidarsi di più dei professionisti e sono quindi meno propense a segnalare comportamenti irrispettosi e abusivi.

A seconda del Paese, delle diverse strutture per il parto (e delle diverse definizioni di cosa si intenda per violenza ostetrica) le stime della prevalenza del fenomeno variano. In Italia, per esempio [3], in seguito alla campagna web “#Bastatacere: le madri hanno voce”, l’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica (OVO) ha indagato nel 2017 la percezione di esser state vittima di violenza ostetrica in un campione rappresentativo delle donne italiane tra i 18 e i 54 anni con almeno un figlio.

Stando ai risultati, nel 2017 poco più del 20% delle donne intervistate si considerava vittima di violenza ostetrica, seguito da un 33% che si era sentito assistito in modo inadeguato, e circa il 35% che aveva invece segnalato seri problemi di privacy o di fiducia. Inoltre, in seguito ai trattamenti subiti, circa il 15% delle donne aveva deciso di non tornare nella stessa struttura sanitaria e il 6% addirittura di non voler procedere con ulteriori gravidanze. Già all’epoca, i risultati avevano aperto il dibattito con le associazioni mediche di riferimento (Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani AOGOI, Società Italiana di Ginecologia Ostetricia SIGO Associazione Ginecologi Universitari Italiani AGUI) che avevano da subito riconosciuto l’importanza e colto l’invito a un maggior dialogo nella relazione medico-paziente, mostrando però allo stesso modo riserve nei confronti delle metodologie adottate da OVO per raccogliere i dati, in particolare riguardo alla rappresentatività del campione [5].

 

Mancanza di comunicazione

“In genere, le donne che arrivano ad affermare di aver sofferto di violenza ostetrica non lo fanno perché è stato negato loro qualche intervento ma perché hanno avuto un’esperienza complessiva per qualche motivo non conforme alle attese” afferma Irene Cetin, professoressa ordinaria di Ostetricia e Ginecologia presso l'Università degli Studi di Milano, e Direttrice dell'UOC Ostetricia e Ginecologia dell'Ospedale Buzzi di Milano. “In seguito alla denuncia di OVO, anche la SIGO aveva condotto uno studio su larga scala in tutto il territorio italiano, su tutte le donne che avevano partorito, nell’arco di tre mesi. Quell’indagine aveva delineato un quadro diverso, molto diverso. Il fenomeno non era certo zero, ma più contenuto. Il tema è molto delicato, tanto che ogni segnalazione che riceviamo in ospedale è sempre valutata con attenzione e nel dettaglio, e le donne vengono a colloquio da noi per discutere di errori e aspettative mancate”.

E aggiunge: “L'esperienza mi porta a dire che le lamentele circa ciò che avviene in sala parto sono estremamente rare; già più frequenti, ma comunque bassi, i problemi evidenziati nei giorni di ricovero immediatamente successivi al parto”. Le risorse sono sempre troppo poche e sono la ragione per cui nasce la maggior parte dei problemi: “I veri disagi sono in reparto”, continua Cetin, “dove il rapporto ostetriche-letti è di a una/due a trenta, e dove quindi risulta più difficile sentirsi ascoltate. Con il COVID-19 la situazione è ulteriormente peggiorata, anche se nelò mio ospedale abbiamo garantito sempre, non senza lotte, la presenza del partner in sala parto”.

Una conquista, quella del partner in ospedale, relativamente recente, così come sono recenti tutta una serie di accortezze (avere i lettini giusti, dare corrette spiegazioni e informazioni su come instaurare un rapporto con il figlio eccetera) necessarie per garantire quello che prende il nome di “humanizing birth”, ovvero l’umanizzazione del parto, quel processo dove la donna è al centro e protagonista dell’evento nascita.

 

Carenza di risorse in reparto

A livello di sistema, ancora una volta, c’è una grave mancanza di organizzazione e di risorse: poche persone in reparto, ancora meno specialisti in ambito psicologico, e un contatto, in molti ospedali e in molte Regioni, per lo più inesistente dopo la dimissione. Non mancano però aspetti positivi e speranze per il futuro. Basti pensare, sottolinea Irene Cetin, a come si siano modificati nel tempo i corsi di laurea in Ostetricia, dove ora una gran parte della didattica e della formazione è incentrata sull’aspetto emotivo della nascita. Anche dal lato dei medici ginecologi “gran parte delle problematiche è legata a un retaggio del passato”, sottolinea Cetin. “Non dimentichiamo che si partorisce in ospedale da relativamente poco. La cosiddetta medicalizzazione del parto è stata la responsabile del calo della mortalità e della morbidità delle gestanti, ma all’inizio non si aveva grande interesse o cura di come stesse la donna in quella circostanza, compreso ridurre il suo dolore fisico. È dagli anni ’70, con il francese Leboyer e l’italiano Miraglia [N.d.R. promotori del cosiddetto parto dolce] che si è fatta strada una consapevolezza diversa. Per questo credo che la situazione andrà migliorando col tempo”.

“Per garantire una sempre migliore comunicazione medico-paziente”, conclude Cetin, “sarebbe forse il caso di accertarsi, anche in fase di corso preparto, che le donne siano ben consapevoli delle possibili complicazioni; che siano a conoscenza dei necessari e rapidi interventi d’urgenza che devono essere messi in atto dal personale sanitario. Così verrebbe mantenuto il rapporto di fiducia e si potrebbe arginare la percezione di aver subito un abuso perché non si è state coinvolte nelle decisioni strettamente mediche”.