Tumore polmonare non a piccole cellule: un bersaglio immunoterapico potrebbe risolvere esigenze insoddisfatte

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In una sperimentazione clinica di fase 2 la proteina gene attivatore dei linfociti 3 (lymphocyte-activation gene 3, LAG-3) solubile ha ottenuto buoni risultati come potenziale trattamento del tumore polmonare non a piccole cellule (non-small cell lung cancer, NSCLC) con qualsiasi livello di espressione del ligando 1 della proteina di morte cellulare programmata (programmed cell death-ligand 1, PD-L1).

“Abbiamo osservato un tasso di risposta molto incoraggiante. Sono state osservate risposte nell’intero spettro dello stato per PD-L1”, afferma il Dott Wade Iams, del Vanderbilt University Medical Center, Nashville, Tennessee.

“Lo studio non era limitato a pazienti con alti livelli di PD-L1. Avevamo una buona distribuzione di pazienti in tutti i tre gruppi tipici del contesto terapeutico [dell’NSCLC]. La durata mediana della risposta nei tipi istologici squamoso e non squamoso è stata di quasi 22 mesi. È un risultato davvero incoraggiante rispetto ai controlli storici”, dichiara.

Eftilagimod alfa è una forma solubile della proteina LAG-3, uno stimolatore delle cellule che presentano l’antigene e dei linfociti T CD8+ grazie alla sua azione sulle molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (major histocompatibility complex. MHC) di classe 2. Sopprime l’attivazione dei linfociti T ed è quindi potenzialmente in grado di aumentare l’effetto della terapia anti-proteina di morte cellulare programmata-1 (programmed cell death-1, PD-1).

Il farmaco rappresenta un cambiamento rispetto ad altri agenti, che sono antagonisti di LAG-3. Tali terapie interferiscono con l’interazione tra LAG-3 sulla superficie dei linfociti T attivati e le molecole di MHC di classe 2 sulla superficie delle cellule dendritiche a riposo, che altrimenti attenuerebbe la risposta immunitaria nel microambiente tumorale. D’altra parte, LAG-3 (o eftilagimod alfa) interagisce con l’MHC di classe 2 sulla superficie delle cellule dendritiche attivate e dei monociti, stimolando la produzione di linfociti T CD8+ citotossici. Questi possono a loro volta essere ulteriormente rilasciati grazie all’azione a valle di pembrolizumab.

La sperimentazione di fase 2 prevedeva tre parti: nella Parte A, 114 pazienti con NSCLC hanno ricevuto la combinazione eftilagimod alfa e pembrolizumab somministrata come terapia di prima linea; la Parte B ha esaminato la combinazione in 36 pazienti resistenti alle terapie anti-PD-1/PD-L1; la Parte C ha incluso 39 pazienti affetti da carcinoma a cellule squamose della testa e del collo trattati precedentemente con chemioterapia a base di platino. I pazienti hanno ricevuto la terapia combinata al massimo per 1 anno, quindi pembrolizumab in monoterapia al massimo per un altro anno.

L’endpoint primario dello studio era un confronto del tasso di risposta complessiva (overall response rate, ORR) con i controlli storici, con il successo stabilito al 35% o superiore. Nell’analisi intent-to-treat della popolazione con NSCLC naïve al trattamento, l’ORR è risultato del 39,5% (IC 95%, 30,5%–49,1%) e la sopravvivenza libera da progressione mediana ad interim di 6,9 mesi (IC 95%, 4,9–9,3 mesi). Nei 40 pazienti responder la durata mediana della risposta è stata di 21,6 mesi (IC 95%, 17,3–30,0). Gli ORR sono risultati simili tra sottotipi squamoso e non squamoso.

Presentando i risultati, il Dott Iams ha rivelato che il 75% dei partecipanti presentava livelli di PD-L1 inferiori al 50%. L’ORR è risultato massimo, del 55%, nel gruppo con PD-L1 superiore al 50%, del 44,7% nel gruppo con PD-L1 compreso tra 1% e 49% e del 31,1% nel gruppo con PD-L1 inferiore all’1%. Il Dott. Iams afferma che si tratta di un “tasso di risposta davvero notevole” per il gruppo con bassa espressione di PD-L1. La sopravvivenza libera da progressione mediana ad interim ha evidenziato una tendenza simile, con valori rispettivamente di 11,4 mesi, 8,3 mesi e 4,2 mesi.

In risposta alla domanda su quale sia l’efficacia nei diversi sottogruppi, il Dott. Iams dichiara che altri agenti immunostimolanti hanno evidenziato un miglioramento graduale tra i vari livelli di espressione di PD-L1, simile a quello osservato nell’attuale studio. “La mia opinione personale sul motivo per cui si osserva efficacia anche con bassi livelli di PD-L1 è in parte che PD-L1 è un biomarcatore imperfetto. Sappiamo che esiste eterogeneità tumorale, e forse non è completamente rappresentativo di una valutazione in una singola sede, ma anche in combinazione, cosa che si osserva nei pazienti [con NSCLC] trattati sia con agenti anti-PD-L1 sia con agenti anti-CTLA-4, che presentano una maggiore efficacia nei pazienti con basso PD-L1. Queste strategie immunoterapiche combinate possono pertanto essere appropriate in particolare per i pazienti con bassi livelli di PD-L1”, afferma il Dott. Iams.

Lo studio è stato finanziato da Immutep e Merck Sharp e Dohme.

L’articolo è un adattamento dell’originale, scritto da Jim Kling, apparso su MDedge.com, parte di Medscape Professional Network.