Test di screening per HPV: qual è l'età giusta per smettere?
- Cristina Ferrario
- Uniflash
Proporre alle donne di età superiore ai 65 anni un test di screening per il papillomavirus umano (HPV) si associa a una migliore identificazione di neoplasia cervicale intraepiteliale di grado uguale o superiore a 2 (CIN2+) rispetto alla mancanza di tale opportunità di screening.
Lo scrivono sulla rivista PLOS Med gli autori di un articolo nel quale sono state coinvolte oltre 44.500 donne danesi di età compresa tra 65 e 69 anni che non si erano sottoposte a test di screening per HPV da più di 5,5 anni e non disponevano di alcun esito di un test per HPV tra i 60 e i 64 anni di età.
“L’incidenza del tumore della cervice uterina continua a rappresentare un importante problema di salute e con l’incremento dell’aspettativa di vita i numeri potrebbero aumentare” spiegano gli autori della ricerca, guidati da Mette Tranberg, dell’Ospedale Regionale di Randers, in Danimarca, primo nome dell’articolo. “Il test per l’identificazione dei ceppi ad alto rischio di HPV sta soppiantando la citologia nella maggior parte dei paesi occidentali grazie alla sua maggiore sensibilità, ma resta il fatto che molte donne di età uguale o superiore a 65 anni non sono mai state sottoposte a un test per HPV nonostante rappresentino circa il 50% dei casi di decessi per tumore della cervice” aggiungono, ricordando che l’età alla quale interrompere lo screening resta argomento di dibattito.
Le potenzialità dell'auto-campionamento
Per aiutare a comprendere meglio i termini di questo dibattito, gli autori hanno invitato un gruppo di donne over-65 danesi residenti nella regione centrale del paese a sottoporsi a un test per HPV dal medico di base oppure a effettuare loro stesse il test a domicilio. Le donne residenti nelle altre regioni della Danimarca sono state sottoposte alle cure standard, che includevano anche la possibilità di essere sottoposte a un test.
“Il risultato del test ‘di recupero’, ovvero effettuato in donne anziane che non si erano sottoposte a un test HPV in precedenza, potrebbe avere un impatto psicologico importante e di conseguenza è fondamentale prestare attenzione al rapporto rischio-beneficio nel proporre questo tipo di strategia” precisano i ricercatori, che tra gli end point dello studio hanno incluso oltre al tasso di CIN2+, anche questo rapporto.
A conti fatti, l’analisi ha dimostrato che il test ‘di recupero’ ha portato all’identificazione di molte più CIN2+: 3,9 versus 0,3 per 1.000 donne eleggibili per lo screening nel gruppo test versus cure standard, rispettivamente.
Inoltre, l’esecuzione del test non è risultata associata a un numero significativamente maggiore di colposcopie necessarie per identificare un caso di CIN2+ (11,6 versus 10,1, rispettivamente). In linea generale, la modalità di screening preferita è stato il prelievo in un ambulatorio medico (71,1%), ma la percentuale di auto-campionamento è risultata molto più elevata tra le donne non sottoposte a sufficienti screening in passato rispetto a quelle che sono state invece sottoposte a screening sufficienti (52,1% versus 27,3%).
“L’auto-campionamento potrebbe rappresentare una strategia vincente da proporre a questa popolazione di donne anziane che non si sono mai sottoposte a precedenti screening per HPV anche perché proprio il disagio legato all’esecuzione del test in un ambulatorio medico rappresenta una barriera all’adesione allo screening per molte donne” spiegano gli autori, ricordando che le donne che risultano negative a un test “di recupero” come quello dello studio hanno possibilità estremamente basse di ricevere una diagnosi di tumore della cervice più in là negli anni.
“I decisori devono valutare se gli interventi con test HPV ‘di recupero’ debbano essere differenziati in base alla precedente partecipazione a programmi di screening e ai risultati ottenuti, in modo da ottimizzare il bilancio costo-beneficio” concludono Tranberg e colleghi.
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