SIMeGeN 2023 - Vulvodinia: dare un nome al dolore per guarire
- Maria Valsecchi Cristina
- Uniflash
Dolore cronico, presente da almeno 3 mesi, che coinvolge in generale la vulva o alcuni suoi settori specifici, come la clitoride o il vestibolo, non riconducibile a cause di natura infettiva, infiammatoria, oncologica, endocrina, a traumi della cute oppure a danni delle fibre nervose: questa è la definizione (1) della vulvodinia, patologia poco conosciuta che secondo alcuni studi statunitensi affligge dal 3 al 14% della popolazione femminile.
“Probabilmente le donne che ne soffrono sono molte di più e non ne parlano per vergogna, perché si sentono ‘sbagliate’” dice la ginecologa Pina Belfiore, presidente della Società Italiana Interdisciplinare di Vulvologia, intervenuta al congresso annuale della Società Italiana di Medicina di Genere nelle Neuroscienze (SIMeGeN). “È una patologia che si può curare o, quanto meno, si può migliorare la qualità di vita delle pazienti in modo significativo, con un approccio terapeutico personalizzato”.
La diagnosi corretta
Il primo passo da fare per avviare la paziente nella giusta direzione sulla strada della guarigione è accoglierla con empatia, riconoscendo la sua sofferenza, che può avere anche cause psicologiche ma non è immaginaria. “Bisogna spiegarle che la sua patologia ha un nome, che non è la sola a trovarsi in questa situazione e, soprattutto, che può sperare di risolvere il suo problema, che se ne può uscire” spiega la ginecologa.
Per diagnosticare correttamente la vulvodinia occorre innanzi tutto un’accurata anamnesi algologica: da quanto tempo è comparso il dolore, se è continuo o scatenato da qualche fattore ambientale, per esempio dai rapporti sessuali o al contatto con la biancheria, se è bruciante o pungente, se si è manifestato per la prima volta dopo un’infezione o dopo un trauma fisico o psicologico, se la paziente soffre di altre forme di dolore cronico, per esempio cefalee ricorrenti o fibromialgia.
“È necessario poi ispezionare la vulva per escludere patologie o danni organici che possono essere responsabili del dolore, localizzare i punti ipersensibili e valutare l’intensità del sintomo”, dice Belfiore. “A questo scopo si fa ricorso allo swab test, che si effettua esercitando una leggera pressione su diversi punti della vulva con un bastoncino cotonato”.
Una disfunzione del sistema nervoso centrale
La vulvodinia non è una patologia della vulva, ma una disfunzione del sistema nervoso centrale che fraintende i segnali provenienti dalla periferia, interpretando come stimoli dolorosi segnali di altra natura. “All’origine della disfunzione c’è una predisposizione individuale, infatti spesso le donne che ne soffrono sono affette anche da altre forme di dolore cronico” osserva la ginecologa. “Il fattore scatenante della vulvodinia può essere un’infezione batterica, una candidosi, oppure un evento traumatico come un parto operativo o un trauma psicologico”.
Dal momento che non sono coinvolti meccanismi infiammatori, gli antinfiammatori non sono utili per trattare il problema. “Occorre piuttosto ridurre la sensibilità del sistema nervoso centrale. Allo scopo si utilizzano farmaci antidepressivi o antiepilettici a basso dosaggio” spiega Belfiore. “Un altro trattamento che può giovare, in sinergia con quello farmacologico, è la riabilitazione del pavimento pelvico, condotta da un professionista che deve avere esperienza specifica sulla vulvodinia, perché un eccessivo incremento del tono del muscolo elevatore dell’ano può peggiorare la situazione. Può aiutare anche la psicoterapia e l’adozione di alcuni accorgimenti igienici e comportamentali, come l’uso di un lubrificante per i rapporti sessuali, di biancheria di puro cotone e detergenti intimi non aggressivi”.
È importante che il medico di famiglia a cui si rivolge una donna con questo problema la indirizzi a uno specialista esperto. “Per avere indicazioni sul territorio ci si può rivolgere alla Società Italiana Interdisciplinare di Vulvologia” conclude Belfiore.
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