Si dice in Villa - Se la terra ha la febbre, i medici non possono voltarsi dall’altra parte
- Roberta Villa
- Uniflash
Come si diceva la scorsa settimana della guerra, anche la crisi climatica è qualcosa che ci riguarda. I medici italiani hanno già tanti pensieri: sottopagati rispetto ai colleghi di altri paesi, sottorganico, intrappolati nei meandri della burocrazia, costretti a confrontarsi con un servizio sanitario in crisi, ora temono di vedersi tagliare anche le pensioni. È vero. Eppure, nonostante tutte queste altre preoccupazioni, nell’anno più caldo da quando si registrano le temperature sul pianeta, non si può continuare a mettere la testa nella sabbia davanti all’emergenza climatica e ai suoi impatti sulla salute, né continuare a spostarla in secondo piano rispetto ad altre priorità.
Ci pensiamo come se si trattasse di una nuova emergenza, dopo tre anni di pandemia, ma sappiamo bene che c’è poco di inatteso. Ci troviamo solo davanti agli occhi quello su cui gli scienziati della terra ci mettono in guardia dalla seconda metà del secolo scorso e i cui danni avremmo potuto limitare, se non evitare, se fin dall’inizio avessimo dato loro retta.
Ho trovato un ottimo riassunto della situazione in cui ci troviamo in un articolo online molto chiaro e facilmente leggibile di Ferdinando Cotugno, a cui vi rimando per gli aspetti più strettamente ambientali. Ma anche dal punto di vista dell’impatto sulla salute nell’ultimo periodo non sono mancate le sollecitazioni. Oltre ai periodici e puntuali allarmi di Copernicus, concentrati sulla situazione in Europa, anche l’ottavo rapporto annuale del Lancet Countdown team messo in campo dalla rivista britannica non fa sconti: si stima che il 2023 abbia visto le più alte temperature globali da oltre 100.000 anni, con livelli record superati in tutti i continenti.
A noi che ci occupiamo di altro sembra poco un aumento medio di 1,32°C rispetto alle temperature del periodo preindustriale, ma proprio noi abbiamo forse tra le mani la metafora più chiara per capirne l’impatto: tra una temperatura corporea di 36,7°C e una di 38°C quanto cambia il benessere di un individuo? E un solo grado in più, che porti a 39? Si parla di un aumento medio, attenzione, calcolato sulle temperature registrate in diverse parti del globo terrestre. La regione europea dell’OMS - che comprende anche la Turchia, la Russia fino al Pacifico e le Repubbliche dell’Asia centrale – da questo quadro non esce bene: secondo lo State of the Climate in Europe 2022, dagli anni Ottanta quella europea è l’area che si riscalda più rapidamente in tutto il mondo, a una velocità quasi doppia della media.
E comunque anche altrove l’aumento delle temperature basta a provocare una serie preoccupante di conseguenze dirette e indirette per la salute umana. Un altro rapporto, dell’Organizzazione no-profit Climate Central di Princeton, riportato da Nature, ha calcolato che quasi un quarto degli abitanti del pianeta abbia sperimentato nell’anno che si sta per chiudere temperature pericolose per la salute.
Prima di tutto ci sono anziani e bambini piccoli, esposti al doppio di giornate con ondate di calore pericolose per la vita rispetto al periodo 1965-2005. Si calcola che nel 2020 – pandemia a parte – le morti dovute al caldo negli over 65 sono aumentate dell’85% rispetto all’ultimo decennio del secolo scorso, ben più dell’aumento del 38% che ci si sarebbe potuti aspettare sulla base di altri fattori (per esempio l’invecchiamento della popolazione) se la temperatura non fosse cambiata.
Comincia a toccarci da vicino anche la diffusione a latitudini insolite – compresa appunto l’Italia e gli Stati uniti - di malattie infettive trasportate da insetti, soprattutto zanzare, tipicamente subtropicali o tropicali come la dengue, la malaria, il colera o il virus del Nilo occidentali.
I ghiacciai si ritirano, nei mesi scorsi abbiamo visto il Po e altri grandi fiumi quasi prosciugati, per cui anche i nostri agricoltori stanno cominciando a dover fronteggiare lunghi periodi di siccità. Ma altrove è vertiginosa la crescita della percentuale di territorio colpita da una siccità estrema, con conseguenze sulla disponibilità di acqua potabile, sull’igiene e sulla produzione di cibo. Questo è un punto cruciale. Il trend con cui nei decenni passati si era ridotta la quota di popolazione che soffriva la fame non è più lo stesso: nel 2021, rispetto alla media del trentennio 1981–2010, abbiamo avuto 127 milioni di persone in più che nel mondo hanno sperimentato in maniera moderata o grave l’incertezza di poter trovare da mangiare per sé e per la propria famiglia, con milioni di persone a rischio di malnutrizione, talvolta, soprattutto nei bambini, a livelli tali da provocare danni irreversibili alla salute.
Aggiungendo alla siccità le alluvioni che distruggono i campi e l’innalzamento del livello dei mari che rende inutilizzabile il terreno e aumenta il livello di sale vicino al delta dei fiumi si capisce quanto sarà difficile fermare ulteriori ondate migratorie legate a un incomprimibile istinto di sopravvivenza, oltre che alle guerre che queste situazioni di estrema necessità tendono a scatenare per la conquista dei beni di prima necessità, come l’acqua.
Ma il danno economico dovuto ai fenomeni meteo estremi è già evidente anche da noi, basta chiedere a chi è stato vittima dei recenti disastri che si sono verificati negli ultimi mesi in Emilia-Romagna o in alta Toscana. A livello globale il rapporto di Lancet stima che ci sia stato tra il 2018 e il 2022, rispetto al 2010-2014, un incremento del 23% di perdite dovuti a questi tipi di eventi, pari a 264 miliardi di dollari solo nel 2022, mentre l’esposizione a ondate di calore ha portato a 863 miliardi di dollari di potenziale perdita di reddito, soprattutto a carico dei paesi a basso e medio reddito. Tutto questo va a colpire sistemi sanitari sempre più in difficoltà, accentuando diseguaglianze, di cui sono ben noti gli effetti sulla salute.
Secondo il Climate Vulnerable Forum che unisce i paesi più a rischio, se l’aumento medio delle temperature raggiungerà la soglia dei 2°C, il numero di decessi legati al calore potrebbe quasi quadruplicare e le ore di lavoro perse aumentare fino al 50% in più entro la metà del secolo, portando entro il 2041 circa mezzo miliardo di persone a quello stato di “insicurezza alimentare” di cui si faceva cenno più sopra.
Alla luce di tutto questo non sorprende che la prossima COP28, in programma ai primi di dicembre negli Emirati Arabi Uniti, abbia finalmente deciso di concentrarsi sulla salute, dedicando per la prima volta una specifica giornata, il 3 dicembre, a questo aspetto basilare della crisi climatica. Speriamo che ne escano raccomandazioni concrete e praticabili, perché davvero non c’è più tempo da perdere. Ad allarmi e negazionismi è tempo di sostituire azioni concrete da mettere in atto subito.
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