Si dice in Villa - Long Covid: il ruolo dei medici tra legge e assistenza

  • Roberta Villa
  • Uniflash
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Il 25 maggio scorso, a due anni dalla sua introduzione, è scaduto il provvedimento temporaneo che garantiva l’esenzione dal ticket per gli esami da eseguire nei sopravvissuti a forme gravi di covid-19. Ma non si tratta del venir meno di un sostegno per i tanti cittadini che, a distanza di oltre tre mesi da un’infezione, dal decorso di per sé talvolta banale, soffrono per sintomi più o meno invalidanti legati alla malattia. Per questi in Italia non c’è nessuna facilitazione, né a livello diagnostico, né terapeutico, né riabilitativo. 

 

Nonostante sia spesso stata citata come una legge a supporto del follow-up dei pazienti con long covid, la norma contenuta nell’articolo 27 del Decreto Legislativo n. 73/2021 ("Misure urgenti connesse all'emergenza da COVID-19, per le imprese, il lavoro, i giovani, la salute e i servizi territoriali”) non riguardava infatti i casi di long covid o sindrome PASC (post-acute sequelae of SARS-CoV-2 infection), ma solo le possibili conseguenze a distanza di una grave forme di covid-19 che li avesse portati in ospedale. Secondo l’associazione di pazienti AILC, sarebbero 164 mila in Italia i pazienti Long Covid che hanno avuto la malattia in forma grave e sono stati inseriti in un programma di monitoraggio.

Solo i pazienti dimessi dopo forme gravi di covid-19 ricevevano però fino a poche settimane fa – e non in maniera omogenea sul territorio nazionale - il codice di esenzione CV2123, che consentiva loro di sottoporsi gratuitamente, con una certa periodicità, a seconda delle necessità specifiche, a una serie di controlli: esami del sangue di routine, emogasanalisi, spirometria, ecg standard e/o dinamico, ecocolordoppler cardiaco, TC torace, diffusione alveolo-capillare del CO e, solo a chi era stato ricoverato in terapia intensiva o subintensiva, un massimo di quattro colloqui con la psicologa o lo psicologo clinico.

Ma long covid non è, o almeno, non è solo l’esito di una grave malattia respiratoria, tale da richiedere il ricovero. Può svilupparsi anche dopo forme lievi o intermedie, che le persone curano a casa. Il documento di Buone pratiche cliniche predisposto dall’Istituto superiore di sanità in collaborazione con vari esperti, specialisti di diversa formazione e una rappresentante dei pazienti, ha infatti definito “long covid” come una situazione in cui segni e sintomi causati dall’infezione da SARS-CoV-2 continuano o si sviluppano dopo 4 settimane da una infezione acuta. Sotto quest’unico cappello sono quindi compresi i casi in cui l’infezione iniziale non guarisce in un mese (Malattia COVID-19 sintomatica persistente, di durata compresa tra 4 e 12 settimane dopo l’evento acuto) sia quelli con segni e sintomi insorti durante o dopo un’infezione compatibile con il COVID-19, presenti per più di 12 settimane dopo l’evento acuto e non spiegabili con diagnosi alternative (Malattia Post-COVID-19, o sindrome PASC, Post Acute Sequelae of Covid-19).

Questa condizione può manifestarsi in un ampio range di gravità, da persone giovani e, prima di ammalarsi, atletiche e sane, che si ritrovano a dover utilizzare la sedia a rotelle a chi, dopo un anno da una banale forma simil-influenzale, non ha ancora recuperato gusto e olfatto. E questo è un ottimo esempio di come la disabilità non sia un concetto assoluto, ma definito dall’interazione tra la persona e l’ambiente: la persona che ha sviluppato una faticabilità estrema con dispnea a ogni sforzo fisico potrebbe ancora guadagnarsi da vivere se ha un’attività prevalentemente intellettuale, mentre un operaio può essere infastidito a tavola dalla perdita di gusto e olfatto, ma questo non gli farà perdere il lavoro come può capitare a uno chef.

Definire dal punto di vista nosologico long covid, e riconoscerne il potenziale disabilitante, è quindi fondamentale anche per pensare, quando possibile, a una ricollocazione nel mondo del lavoro che eviti gli abbandoni. A giugno 2022 si stimava che su 16 milioni circa di persone con una diagnosi di long covid negli Stati uniti, da 2 a 4 milioni non fossero in condizione di guadagnarsi da vivere. Anche nel Regno unito, l’abbandono dell’impiego a causa di una malattia cronica era diventato già più frequente nel 2019, ma negli anni della pandemia ha visto un incremento significativo, con 200.000 lavoratori a casa per long covid a luglio dell’anno scorso. Solo in Scozia, oltre 2.600 operatori sanitari del National Health Service, quasi tutti infermieri, hanno dichiarato di essersi messi in malattia, talvolta per oltre due anni, a causa di long covid.

Un commento pubblicato ieri sul New England Journal of Medicine sottolinea il ruolo fondamentale che possono avere i medici a questo riguardo, nell’individuare segni e sintomi riconducibili a long covid, diagnosticare questa condizione e, riconoscendo l’origine patologica ormai consolidata da una solida mole di prove, sostenere il paziente che spesso, per la mancanza di riscontri di laboratorio o strumentali oggettivi non viene creduto, né dal proprio datore di lavoro, né da familiari e amici, col rischio di aggravare i disturbi psichici già frequenti in questa malattia.

Perché di vera e propria malattia si tratta. Dal settembre 2020 è elencata nella International Classification of Diseases, versione 10 (ICD-10) come condizione post-COVID-19 e negli Stati uniti è stato introdotto uno specifico codice nosografico, U09.9, di cui si sta ancora studiando l’applicazione, per verificare a quali comorbidità o manifestazioni cliniche è più associato (cardiopolmonari, neurologiche o gastrointestinali, per esempio) e le caratteristiche della popolazione a cui più spesso viene attribuito, anche per individuare eventuali disparità di trattamento.

La stessa variabilità della prevalenza di long covid nelle diverse casistiche – dal 10% a quasi la metà delle persone contagiate - non riflette solo la difficoltà di definire, individuare e ricondurre la persistenza dei segni e dei sintomi a un’infezione pregressa di mesi, spesso banale. Un ruolo importante è giocato anche da un certo scetticismo da parte dei medici stessi a riconoscerla: in un registro sanitario danese solo in poco più dell’1% di tutti i pazienti positivi al SARS-CoV-2 è stato indicato il codice ICD-10 e su quasi tutta la popolazione inglese, a maggio 2021, ne erano state riconosciute ufficialmente come affette da long covid meno di 23.300. Non perché i casi non ci fossero, ma perché più di una practice su 4 non usava affatto i codici relativi, con l’attenzione minima nella parte orientale dell’Inghilterra e la massima consapevolezza in Londra città, probabilmente sia da parte dei pazienti sia da parte di medici che evitano di parlare, come capita ancora di sentire, di una “presunta” sindrome long covid..