Si dice in Villa - La teoria del mercato non assolve la CIna
- Roberta Villa
- Uniflash
Nella polarizzazione che, non solo in Italia, ha accompagnato le ipotesi sull’origine di SARS-CoV-2, la versione che si accompagna più facilmente a sentimenti anti cinesi è quella secondo cui il virus sarebbe sfuggito a un laboratorio dell’Istituto di virologia di Wuhan. Eppure non è meno scomoda per il governo di Xi Jin Ping la teoria più condivisa dagli scienziati - perché più probabile sulla base dei dati di cui disponiamo – secondo la quale il passaggio del virus responsabile di covid-19 ai primi esseri umani sia avvenuta al mercato del pesce di Huanan, forse attraverso un ospite intermedio.
Lo conferma il recente rifiuto del governo cinese a partecipare a un’indagine delle Nazioni unite sul traffico di animali selvatici in Asia che coinvolgerà Thailandia, Vietnam e Laos. Se i cinesi fossero tranquilli che sul loro territorio questa pratica è stata davvero abbandonata non dovrebbero avere problemi a consentire l’inchiesta, tanto più che i risultati del lavoro non dovrebbero essere resi pubblici, ma comunicati solo ai governi competenti, perché provvedano a migliorare la loro preparazione a future minacce che possono venire da questa tradizione. Per ogni paese sarà controllata una quarantina di siti tra “wet market”, zoo, aziende per forniture biomediche e ristoranti, alla ricerca dei segni di un commercio che si sa essere ancora fiorente in quelle parti del mondo, che favorisce futuri spillover e pone in continuo pericolo la salute globale. Al posto della Cina entrerà nel progetto lo stato malese di Sabah, sull’isola del Borneo, ma è evidente che il potenziale impatto di eventuali commerci illegali di animali selvatici in quel paese non è confrontabile con quello che avviene nel Dragone.
Su questo tema, evidentemente caro a una parte significativa della popolazione, la posizione cinese resta purtroppo molto ambigua. In teoria il commercio di animali selvatici vivi e il loro consumo alimentare sarebbe infatti proibito, e, tra il 2020 e il 2022, gli organi di polizia hanno gestito più di 70.000 reati che lo concernono, sequestrando più di un milione di capi. Di fatto però nelle pieghe della legge ci sono talmente tante eccezioni che non è difficile eludere il divieto: fino a maggio, quando dovrebbero entrare in vigore ulteriori restrizioni, è ancora consentito infatti allevare su larga scala animali selvatici per il commercio di pellicce, per l’estrazione di prodotti destinati alla medicina tradizionale, come animali da compagnia e da intrattenimento. Per questo, l’origine della pandemia a partire dal mercato, oltre che più probabile, non è affatto un modo per assolvere il governo cinese dalle sue responsabilità. Anzi, se nel laboratorio si potrebbe parlare di incidente, aver chiuso un occhio sul commercio di animali selvatici è un colpa molto più grave.
Non è quindi per difendere la Cina, ma per avvicinarsi alla verità, sulla base dei dati esistenti, che i ricercatori propendono per l’origine della pandemia a partire da uno spillover avvenuto nel “wet market” a una quarantina di chilometri dal laboratorio di virologia di Wuhan. Anche il rapporto di 300 pagine del Senato statunitense diffuso nei giorni scorsi dall’agenzia Axios non contiene nessuna nuova prova a favore della teoria per cui covid-19 sarebbe nato dalla fuoriuscita accidentale di un virus dal laboratorio. Si tratta solo di un documento redatto da un gruppo di senatori repubblicani che hanno fatto un accurato lavoro di quello che in gergo si chiama “cherry-picking”, scegliendo cioè tra le informazioni disponibili e le opinioni degli scienziati solo a quelle a favore dell’opzione preferita dalla destra americana.
Questa parte politica ha infatti fin da subito sposato l’idea che la pandemia, con tutto ciò che ha comportato, sia nata da un incidente di laboratorio, se non addirittura dalla volontà della Cina di diffondere la minaccia. Il “virus cinese”, come lo chiamava Donald Trump, si prestava alla sua politica così profondamente ostile al paese asiatico che già da prima della pandemia, come racconta Science, aveva imposto ai National Institutes of Health di verificare il comportamento e i rapporti con la madre patria di 246 ricercatori di origine asiatica, nell’ambito della China Initiative volta a smascherare eventuali spie presenti sul territorio americano. Pur in assenza di prove a loro carico, il freno ai finanziamenti dei NIH nei loro confronti provocò il licenziamento di un centinaio di questi scienziati, alcuni dei quali considerati di altissimo livello.
La maggior parte delle accuse, apparentemente pretestuose, si concentravano su progetti di collaborazione tra Stati Uniti e China, molti dei quali finalizzati proprio alla prevenzione di nuove pandemie.
È vero infatti che, dopo la SARS, i principali laboratori di virologia occidentali, tra cui quello degli NIH diretto da Anthony Fauci, hanno stabilito importanti rapporti con quelli cinesi, cercando di creare una rete di lavoro che impedisse nuove minacce pandemiche. Fondamentale era il lavoro che si svolgeva con Shi Zhengli, anche detta “bat-woman” per l’enorme carico di ricerca e analisi dei coronavirus presenti nei pipistrelli condotto negli ultimi vent’anni, a capo del Laboratorio di ricerca sulle malattie emergenti dell’Istituto di Wuhan. La scienziata, che ha escluso la presenza del virus SARS-CoV-2 tra quelli custoditi nel suo laboratorio, è sempre stata difesa dai suoi colleghi occidentali, concordi nel ritenere più convincente l’ipotesi di uno spillover naturale.
Ma non è per difendere questa collaborazione che oggi si tende a escludere l’incidente di laboratorio. Tutte le prove scientifiche portano ai banchi del mercato del pesce di Wuhan, dove, nonostante il divieto formale, era largamente tollerato il commercio di animali selvatici vivi che potevano facilmente trasportare il virus. Questa, per la Cina, non è un’accusa meno grave. Se quindi è importante chiedere al grande paese asiatico di adeguare procedure e impianti così da maneggiare con maggiore cautela gli agenti infettivi, questo non deve far passare in secondo piano la pretesa di interventi più severi contro la vendita di animali selvatici, che espone tutto il mondo, molto più dei laboratori, al rischio di nuove pandemie.
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