Si dice in Villa - La rimozione collettiva di covid ha un prezzo: meno strumenti contro il virus
- Roberta Villa
- Uniflash
Di Covid non si parla più, ma di Covid si muore ancora, sebbene ormai i lutti non siano più compianti dalla collettività, ma soltanto da una ristretta cerchia di familiari e amici. Tutti gli altri parlano della pandemia al passato e la percezione che si sia finalmente voltata pagina produce un grave effetto indesiderato: tagliare i finanziamenti alla ricerca di soluzioni di cui c’è ancora grandissimo bisogno e, quando si trovano, ostacolarne l’applicazione ai malati.
Le notizie degli ultimi giorni confermano entrambe le cose: che covid - anche senza considerare tutte le sue altre conseguenze indirette - è ancora direttamente un’importante causa di morte e che possibili nuovi approcci farmacologici, nella situazione attuale hanno scarse prospettive di arrivare a chi ne ha bisogno.
Partiamo dal primo punto. Mentre scrivo non ho ancora i dati resi pubblici come ogni venerdì, ma ogni settimana i bollettini italiani ci rassicurano sul continuo calo dell’incidenza, prodotto in parte dal minor numero di test eseguiti, ma confermato dalla ridotta pressione su ospedali e terapie intensive. Il dato importante è che anche i decessi, nonostante l’apparente risalita di un paio di settimane fa, tendono a calare.
Tuttavia ci deve essere ancora qualcosa che non funziona se il rapporto settimanale dell’Organizzazione mondiale della sanità, che pure riconosce il trend in netta discesa di tutto il continente, Spagna esclusa, mette l’Italia al secondo posto nella Regione europea per numero di decessi nell’ultimo mese in relazione alla popolazione (2,3 su 100.000 abitanti), dopo il Regno Unito e prima della Federazione russa (sull’affidabilità dei cui dati, comunque, è lecito dubitare). Ancor meno ci si può fidare dei dati riferiti dal Governo cinese, che nei due mesi trascorsi dalla sua brusca riapertura dichiara meno di 85.000 morti, mentre gli esperti internazionali ne stimano da un milione a oltre un milione e mezzo.
Purtroppo, la decisione di decretare per legge la “normale convivenza” con Covid-19 ci priva di informazioni e dati importanti: il Report Vaccini Anti Covid-19 del governo ormai si aggiorna solo con il numero totale di vaccinazioni effettuate, senza più comunicare i dettagli per zona, età, numero di dosi e tipo di vaccino come faceva prima; con la fine dell’emergenza, dal 30 marzo 2022, gli ospedali non sono più tenuti a inviare cartelle cliniche e certificati di morte all’Istituto superiore di sanità, impedendogli così di elaborare nuovi rapporti sulle Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all'infezione da SARS-CoV-2 in Italia.
Se la parola d’ordine è “voltare pagina”, per non parlare di chi pensa che la pandemia sia stata tutta un’enorme montatura, perché impegnarsi e investire su nuovi vaccini e nuove cure? Sul fronte della prevenzione, non ci sono in programma aggiornamenti dei vaccini esistenti e i prodotti innovativi su cui alcuni laboratori continuano a lavorare, come l’ultimo, basato su un virus ricombinante del virus della malattia di Newcastle, non sembrano avere in vista, almeno per ora, grandi aziende disposte a investire gli enormi capitali necessari per portarli oltre le prime fasi di sperimentazione. Arrivano ancora, certo, i risultati dei trial condotti sui vaccini esistenti, l’ultimo dei quali conferma che sicurezza ed efficacia del prodotto di Pfizer a dosaggio pediatrico sono sovrapponibili nei più piccoli, da sei mesi a quattro anni, rispetto ai più grandicelli. Ma è difficile che, nel clima attuale, ciò convinca i genitori che finora non l’hanno fatto a proteggere i loro bambini.
Anche in termini di nuove cure è lecito avere lo sguardo pessimista che anima la riflessione del New York Times su quella che, dal punto di vista scientifico, è un’importante e bellissima notizia. Un tipo di interferone leggermente diverso da quelli usati da decenni come antivirali e già testati con risultati deludenti contro Covid all’inizio della pandemia (detti alfa e beta), in uno studio controllato con placebo su circa 2.000 pazienti con sindrome acuta respiratoria, in più dell’80% dei casi vaccinati, è riuscito a dimezzare il numero di ricoveri e accessi con permanenza prolungata in pronto soccorso. E ciò con una sola iniezione sottocute fatta entro la prima settimana dalla comparsa dei sintomi, a basso costo e senza gli effetti indesiderati degli altri interferoni.
Qual è il problema, allora? Pare che un ostacolo sia rappresentato dal fatto che lo studio sia stato iniziato a livello accademico, senza il contributo dell’azienda che ora lo sta portando avanti. Inoltre, la legge americana prevede che almeno parte della sperimentazione, condotta finora in Brasile e Canada, debba essere replicata sul territorio degli Stati Uniti per passare al vaglio della Food and Drug Administration. L’agenzia avrebbe dichiarato di non essere pronta a un’autorizzazione di emergenza: la stessa procedura che invece è stata messa in campo prontamente per i costosi anticorpi monoclonali, nessuno dei quali è ormai efficace contro le nuove varianti omicron, e per gli antivirali, che, nonostante la loro efficacia, non sono scevri da problemi. Molnupiravir è oggi accusato da più parti di essere, almeno in parte, responsabile della selezioni di quelle stesse varianti che lo hanno reso praticamente inutilizzabile; Paxlovid continua a essere poco prescritto, soprattutto a causa delle molteplici interazioni farmacologiche che comporta. L’interferone pegilato lambda non ha di questi limiti, e potrebbe potenziare la risposta antivirale naturale non solo indipendentemente dalla variante di SARS-CoV-2 in gioco, ma anche contro altri virus respiratori. Speriamo che almeno l’EMA guardi con interesse a questa prospettiva.
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