Si dice in Villa - Informare senza stigmatizzare: si può?

  • Roberta Villa
  • Uniflash
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Mentre si discute delle nuove edizioni delle opere di Roald Dahl per l’infanzia, “ripulite” di tutti gli attributi poco inclusivi nei confronti delle diversità, preoccuparsi di quanto possa essere stigmatizzante la comunicazione su una malattia può sembrare un ulteriore passo verso quella che qualcuno considera “la dittatura del politically correct”, ma che altri ritengono solo una cultura di rispetto per qualunque essere umano. 

In medicina il tema non è nuovo ma è stato recentemente attualizzato da due epidemie di malattie infettive molto diverse tra loro, accomunate solo dal fatto che la stragrande maggioranza dei casi si è verificata tra maschi della comunità LGBQT+. E questo è appunto un fatto, non un giudizio morale. Il punto è: “Si può dire questo fatto?”. Anzi: “Può essere utile dire questo fatto?”. E anche: “Come si può farlo in modo che questa comunicazione produca effetti positivi e non deleteri sulla salute pubblica?”.

Il caso di cui si è parlato di più è quello della malattia della pelle provocata da un virus fino a qualche mese fa indicato come “vaiolo delle scimmie”, in inglese monkeypox.per il quale sembra essere discretamente protettivo un vaccino, disponibile però solo in quantità limitate: come si potevano definire le priorità nella sua distribuzione senza riconoscere e comunicare chi si trovava in una situazione di maggior rischio?

 

L'epidemia di Shigella

Quello di cui l’opinione pubblica è meno consapevole è invece la dissenteria bacillare provocata da Shigella flexneri e Shigella sonneeibatteri normalmente trasmessi per via orofecale, soprattutto in paesi con condizioni igieniche precarie, ma per i quali, in Occidente, negli ultimi anni, è diventata comune la trasmissione sessuale tra uomini. I casi descritti sono tutti in maschi adulti, che quando rispondono a questionari riferiscono in altissima percentuale di avere avuto recentemente rapporti sessuali con altri uomini. La malattia, caratterizzata da febbre, dolori addominali e diarrea, è per lo più autolimitante, ma può presentarsi talvolta in forma grave, soprattutto in persone con sistema immunitario compromesso, negli anziani o nei bambini piccoli. In questi casi può essere necessario ricorrere a terapie antimicrobiche. 

Per questo preoccupa le autorità, soprattutto britanniche, nei batteri isolati da questi pazienti, il riscontro di una estrema resistenza agli antibiotici (XDR), determinata dalla presenza di una beta-lattamasi a spettro esteso (Extended-spectrum beta-lactamase, ESBL). L’enzima, inoltre, è codificato da un gene contenuto in un plasmide trasmesso per via orizzontale tra diversi tipi di enterobatteri: la circolazione di questi batteri estremamente resistenti potrebbe quindi diventare una minaccia alla salute pubblica. Come mettere in guardia chi rischia di contagiarsi e involontariamente di contagiare altri senza dire come si trasmette? 

 

Associazioni pericolose

Mi è capitato recentemente, durante una lezione di comunicazione della scienza, di affrontare il tema dello stigma in corso di malattie infettive. Ho spiegato quanto sia sbagliato e pericoloso, ai fini del contenimento dei contagi, associare una malattia infettiva a un luogo, a un animale o a un gruppo di persone. Lo abbiamo visto con la “suina”, di cui i maiali non avevano alcuna responsabilità, con la MERS, sindrome respiratoria medio orientale, che quando è arrivata in Corea anche per questo pregiudizio geografico non è stata riconosciuta, se non con grave ritardo, ma soprattutto con l’HIV: concentrarsi sulle cosiddette “categorie a rischio”, omosessuali maschi e persone di entrambi i sessi tossicodipendenti, da un lato ha dato un falso senso di rassicurazione agli eterosessuali, che spesso si sono infettati convinti che l’allarme non li riguardava, dall’altro ha disincentivato l’esecuzione di test per paura di ricevere un’etichetta di “intoccabili”.

Per questo l’Organizzazione mondiale della sanità ha stabilito fin dal 2015 in un documento le “best practice” da utilizzare nel battezzare una nuova malattia di pubblico interesse senza rischiare di creare discriminazioni. Sulla base di questi documenti, nei mesi scorsi, si è affrettata a ridenominare il vaiolo delle scimmie con un più asettico “mpox”. Ma quando davanti a una ventina di studenti di comunicazione ho spiegato che l’estate scorsa questa malattia si era diffusa in tutto il mondo quasi esclusivamente tra gli uomini che fanno sesso con altri uomini la mia audience, particolarmente sensibile e attenta, si è sollevata: come si può dire una cosa così discriminante? Proprio mentre parlo di contrastare lo stigma, poi. 

Eppure è stato proprio coinvolgendo le comunità LGBQT+ che si è riusciti a offrire la vaccinazione alle persone più a rischio, facendo rientrare rapidamente l’epidemia. Nel caso di mpox, non è ancora chiaro se il nuovo focolaio, spesso caratterizzato da lesioni particolarmente dolorose a livello di pene e ano, derivi da una variante di virus che si trasmette per via sessuale, ma poiché il contatto stretto è incluso in un rapporto, è possibile che in questo caso la diffusione prevalente (non esclusiva) tra uomini che fanno sesso con uomini derivi da circostanze occasionali. Una persona infetta rientrata dall’Africa avrebbe partecipato a uno o più grandi raduni che si sono verificati in Europa nella tarda primavera dell’anno scorso e in questo modo il contagio sarebbe stato molto più concentrato in questa rete.

Nel caso di shigella, invece, è più probabile che all’origine dell’epidemia vi siano proprio pratiche sessuali più comuni tra gli uomini. La UK Health Security Agency si preoccupa di informare le persone a maggior rischio senza timore di discriminarle, sottolineando che i contatti sessuali che coinvolgono ano e feci sono a maggior rischio e spiegando come ridurlo con attenzione all’igiene e sostituendo il preservativo tra un rapporto e l’altro.

 

Fatti e non etichette

Gli agenti infettivi infatti non discriminano le persone, ma si tramettono più o meno facilmente in relazione ai nostri comportamenti: se si spiega che da rapporti occasionali non protetti si può contrarre HIV, questa informazione vale per omo ed eterosessuali, proteggendo tutti; se si parla del rischio di contagio tramite sangue che contamina aghi e altri strumenti, questa modalità di trasmissione non riguarda solo i “tossicodipendenti” - che come categoria comprendono anche persone che abusano di sostanze non assunte per via iniettiva - ma interessa anche chi è venuto a contatto col virus in ambiente sanitario prima che si intervenisse con le precauzioni necessarie.

Allo stesso modo, mpox o shigella non colpiscono gay o bisex in quanto tali, ma solo quando si espongono al rischio di rapporti multipli con sconosciuti, soprattutto se resi più estremi e violenti tramite assunzione di sostanze stupefacenti (chemosex).

Anche tra medico e paziente, quindi è importante evitare di dare etichette alle persone, ma concentrare l’attenzione sui comportamenti, più o meno rischiosi, indipendentemente da chi li mette in pratica. Per questo oggi si dice sempre di più “uomini che fanno sesso con altri uomini”, in sigla MSM, invece che omosessuali. Non è un altro giro di parole per non chiamare le cose con il loro nome. Dal punto di vista strettamente medico non importano le inclinazioni sessuali di un individuo, se è omosessuale o bisex o magari si definirebbe etero e fa, o ha fatto, sesso con altri uomini solo occasionalmente, o per lavoro. Interessa solo se e quali comportamenti possono minacciare la sua salute, e solo su questi è bene dare consigli di prevenzione, senza mai stigmatizzarli.