Si dice in Villa - Nuovi vaccini, il tempo stringe
- Cristina Ferrario — Agenzia Zoe
- Attualità mediche
di Roberta Villa
Tra i vantaggi dei vaccini a mRNA, ci dicevano, c’è la facilità con cui è possibile riprogrammarli. Nel caso arrivasse una nuova variante, spiegavano scienziati e CEO dell’industria, basterebbero poche settimane per adattare i vaccini alle nuove necessità, inserendo nuove istruzioni nell’involucro di nanolipidi già dimostratisi capace di portare il materiale genetico all’interno delle cellule. Le agenzie regolatorie a questo giro non dovrebbero pretendere la stessa mole di dati richiesti per la prima autorizzazione. Le procedure potrebbero essere più rapide, come quelle che consentono ogni anno di aggiornare i vaccini antinfluenzali. Il meeting degli esperti che stabiliscono i ceppi contro cui produrre questi ultimi, tuttavia, avviene per il nostro emisfero verso la fine di febbraio o i primi di marzo, dopodiché l’Organizzazione mondiale della sanità comunica la “ricetta” dei vaccini per la stagione successiva, in tempi utili per averli sugli scaffali tra ottobre e novembre.
Contro COVID-19, però, per ora tutto tace. Il panel che si è riunito online la scorsa settimana per fornire consigli strategici alla Food and Drug Administration se ne è infatti uscito con un nulla di fatto, se non la richiesta all’agenzia di accelerare i tempi di una decisione. Per poter affrontare l’autunno in serenità, infatti, bisogna scegliere se insistere con nuovi richiami dei vaccini esistenti, creati in risposta al virus originario di Wuhan, oppure chiedere alle aziende di procedere con lo sviluppo e la realizzazione su larga scala di prodotti nuovi, mirati contro le ultime versioni del virus. Ma quali?
Di varianti in poco più di un anno ne sono arrivate tante, molte più di quanto si ipotizzasse all’inizio, e la capacità di risposta da parte delle aziende farmaceutiche non è stata rapida come si pensava.
Tra molte minacce emerse in giro per il mondo, soprattutto in Brasile e Sudafrica, si sono affermate in Europa e Stati Uniti, all’inizio del 2021, prima alfa, la cosiddetta “variante inglese”, più contagiosa di quella responsabile della prima e seconda ondata, e poi delta, proveniente dall’India, che univa a una maggiore trasmissibilità anche una maggiore virulenza. Alla fine dell’anno, infine, la svolta omicron, subito sfrangiata in sottovarianti sempre più contagiose, capaci inoltre di ricombinarsi tra loro e con i virus delta ancora circolanti.
In questo quadro è da considerare un grande successo che i vaccini prodotti a partire dal prototipo del virus sequenziato a Wuhan ancora riescano a proteggere con grande efficacia da forme gravi, ricoveri e decessi. Lo fanno soprattutto grazie alla forza della retroguardia immunitaria costituita dalle cellule T. Ma i virus mutati riescono a superare sempre meglio la prima barriera anticorpale che difende gli individui da infezione e malattia sintomatica, senza contare il fatto che anche questa rete a maglie larghe tende ad abbassarsi dopo poche settimane, anche dopo essere stata rivitalizzata da un primo e secondo richiamo. La “quarta dose” raccomandata oggi ai più vulnerabili serve a proteggerli nei mesi che ci separano dalla bella stagione, quando, con una maggiore quantità di tempo vissuta all’aria aperta, si spera che la circolazione del virus si riduca, ma per molte ragioni (pratiche, economiche, forse anche immunologiche) è difficile pensare a una campagna che si ripeta 3-4 volte l’anno.
Resta quindi in campo l’opzione di realizzare nuovi vaccini, anche se le speranze inizialmente poste su questa scelta si stanno un po’ ridimensionando. Il rapido emergere di nuove varianti, anche da rami collaterali come ha fatto omicron, rischia infatti di vanificare gli sforzi milionari delle aziende. Non si tratta infatti solo di creare un nuovo vaccino, ma di adeguare poi tutte le linee produttive. Una volta pronti i vaccini contro omicron, un’altra variante potrebbe aver già preso il sopravvento, e nessuno può dire che in quel caso i nuovi prodotti sarebbero migliori di quelli già esistenti, che comunque continuano a restare validi per lo scopo primario di salvare vite.
Da oltre un anno si parla poi della ricerca su vaccini a più ampio spettro, diretti verso parti meno variabili del virus e quindi in grado di indurre anticorpi contro diversi coronavirus esistenti o futuri: ottenere anticorpi che, oltre a legarsi al virus, siano anche in grado di bloccarne l’ingresso nelle cellule tuttavia non è così facile. Il lavoro di molti laboratori impegnati in questa direzione, quindi, per ora non ha portato a trial sufficientemente avanzati e promettenti da pensare a una produzione industriale. Il ticchettio delle stagioni, tuttavia, è inesorabile. Dopo oltre due anni di pandemia, a settembre non possiamo farci trovare di nuovo impreparati.
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