Si dice in Villa - Liste d'attesa oltre la crisi del SSN
- Daniela Ovadia — Agenzia Zoe
- Attualità mediche
di Roberta Villa
Come sa bene chi legge, e come ha ricordato qualche giorno fa Milena Gabanelli nel suo Dataroom per il Corriere della Sera e per il telegiornale di La7, il Sistema sanitario nazionale, in base alla priorità stabilita dal medico al momento della prescrizione. Una prestazione dovrebbe essere in teoria garantita in 72 ore se urgente, entro 10 giorni se c’è il codice «breve», entro 30 giorni se si tratta di una visita e 60 se si tratta di un esame, qualora questi siano differibili, ed entro 120 se programmati.
Alla base della legge voluta nel febbraio del 2019 dall’allora ministra della salute Giulia Grillo (il cosiddetto PNGLA, Piano nazionale di governo delle liste di attesa), c’è anche un criterio di trasparenza, che impone alle Regioni di comunicare sui propri siti i dati relativi ai tempi di attesa. Purtroppo, come sottolinea la giornalista del Corriere, i criteri con cui questi dati sono raccolti e comunicati variano da Regione a Regione, e sono sostanzialmente presentati in modo da mostrare una realtà più rosea di quanto non sia.
Perché nei fatti, lo sappiamo bene, la possibilità di accedere a visite ed esami entro i tempi previsti tramite il Servizio sanitario nazionale è in molti casi un miraggio. E lo era anche ben prima della comparsa di SARS-CoV-2. Secondo il XXII Rapporto PiT Salute di Cittadinanzattiva, nel 2018 i tempi medi per ottenere una visita oculistica erano di 9 mesi, mentre per fare una mammografia o una risonanza magnetica occorreva già allora aspettare almeno un anno.
La pandemia non poteva che peggiorare la situazione. Nei momenti più difficili, soprattutto durante le prime ondate del 2020, tutte le prestazioni non urgenti sono state rimandate; nei mesi in cui le acque sembravano calmarsi, e l’attività riprendeva a pieno ritmo cercando di recuperare il tempo perduto, erano i pazienti che esitavano a rivolgersi all’ospedale o al medico per riferire un disturbo, effettuare un controllo, programmare un intervento non urgente. Un po’ per la paura di contagiarsi, un po’ per il disagio di non poter essere accompagnati da una persona cara, a causa delle restrizioni che continuavano a imporre “ospedali chiusi”, un po’ per la sensazione che “ci fossero ben altre priorità”. Ora che tutti questi arretrati tornano a galla, sommandosi ai casi correnti, incontrano una sanità che in questi due anni si è ulteriormente indebolita.
La Anaao-Assomed stima infatti che negli ultimi 3 anni il Servizio sanitario nazionale abbia perso quasi 21.000 specialisti, di cui 8.000 avrebbero lasciato gli ospedali per dimissioni volontarie e scadenza del contratto a tempo determinato, mentre quasi 13.000 mancherebbero all’appello perché deceduti, invalidi o in pensione.
In questo panorama, tutte le proposte messe in campo sembrano insufficienti anche solo a tamponare la situazione. Per esempio, la giunta regionale della Lombardia ha approvato la proposta della vicepresidente e assessora al welfare Letizia Moratti che dal primo maggio estende gli orari di esami e interventi la sera e nei weekend: ma con quale personale? Si cominciano a identificare le Case di comunità finanziate con i fondi del PNRR, ma chi le farà funzionare? Molti Paesi attraggono medici dall’estero, tanto che questi sono quasi il 60% in Israele, circa uno su tre in Irlanda, Australia e Regno Unito, intorno a uno su quattro in Svizzera, USA, Svezia e Canada. Perché mai dovrebbero venire in Italia invece che in altri Paesi? Quale maggiore attrattività possiamo offrire, a parte il clima, la cucina, le bellezze naturali e artistiche? Certamente alcuni rari centri di eccellenza nella ricerca clinica, ma soprattutto burocrazia, cattiva qualità del lavoro, stipendi più bassi della media degli altri grandi Paesi europei e del mondo.
Il ministro Roberto Speranza, oltre ad aver favorito l’allargamento delle borse di studio per le scuole di specialità, propone ora di cominciare ad assumere gli specializzandi a partire dal terzo anno: un’idea che farà discutere. I giovani, che per di più hanno visto il percorso di formazione stravolto dalla pandemia, saranno sufficientemente preparati?
Il problema non è di facile soluzione, ma finora non si è parlato molto della possibilità di affrontarlo in un altro modo: invece che aumentando l’offerta di medicina, razionalizzandone la domanda.
Per i politici non è facile, certo. È un attimo essere etichettati come quella o quello dei “tagli alla sanità”. Ma fino a quando non si affronterà seriamente il tema di quale medicina il Servizio sanitario può offrire, non vedo vie di uscita. La richiesta di visite e prestazioni continuerà a crescere, in parte per l’invecchiamento medio della popolazione, in parte come effetto delle azioni di marketing di grandi gruppi ospedalieri, aziende farmaceutiche, biomedicali, di apparecchiature e diagnostica. In un sistema creato per gonfiare la domanda, è difficile tenere il passo con l’offerta. Forse per salvare il Servizio sanitario nazionale occorre partire a qui.
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