Si dice in Villa - L'influenza dell'anno che verrà
- Daniela Ovadia — Agenzia Zoe
- Attualità mediche
di Roberta Villa
Dopo quasi due anni di pandemia in cui si è spesso dovuta navigare l’incertezza, incombe sulla sanità una nuova incognita che riguarda una delle condizioni più familiari ai medici e a cui tuttavia oggi è davvero difficile dare risposta: si vedrà l’influenza quest’anno? Si sommerà agli ultimi (speriamo) colpi di coda della pandemia o invece lascerà ancora il nuovo coronavirus al centro dell’attenzione dei camici bianchi e dei loro assistiti? L’unica risposta onesta e scientificamente fondata a oggi è “non lo sappiamo”.
Prima di Covid-19, c’era una cosa sicura come il sorgere del sole ogni mattina: più o meno puntuale, più o meno aggressiva, ad accompagnare i primi freddi e l’accorciarsi delle giornate, o tutt’al più insieme alle renne di Babbo Natale, sarebbe arrivata l’influenza. Telefoni impazziti per i medici di famiglia, aule scolastiche decimate, pronto soccorsi ingolfati.
Ai primi casi individuati dalla rete di sorveglianza, immancabilmente arrivavano i titoli dei giornali: “Primi casi di influenza, quest’anno sarà particolarmente aggressiva, correte a farvi vaccinare”. In realtà, a ogni inizio di stagione, nessuno sapeva davvero come sarebbe andata.
Qualche ipotesi si poteva avanzare in base ai ceppi prevalenti nell’emisfero australe o al bilancio dell’anno precedente, ma nessuno si azzardava a fare previsioni positive, che potevano scoraggiare l’adesione alla campagna o spingere il pubblico a sottovalutare ancora di più quella che per la maggior parte dei non addetti ai lavori è a torto percepita come una condizione “normale”, sostanzialmente priva di rischi.
Inoltre, una stagione influenzale intensa era sempre in agguato, per esempio quando emergevano nuove varianti dopo la definizione dei ceppi contro cui produrre i vaccini, o quando anche questi, che già hanno di per sé grossi limiti, erano meno efficaci del solito a causa di un mismatch iniziale, per errore nella scelta da parte delle autorità internazionali.
Nel dubbio, tuttavia, era difficile trovare un esperto che preannunciasse una stagione “leggera”. Schiacciando l’acceleratore dell’allarmismo si sperava di alzare tassi di vaccinazione sempre insufficienti, anche nelle popolazioni target, rispetto a un obiettivo ottimale di copertura del 95% e uno minimo del 75%.
Fino all’anno scorso, infatti, poco più della metà della popolazione a rischio (over 65 e malati cronici), nonostante l’impegno dei medici di famiglia, aderiva alla campagna vaccinale, seppure la tendenza fosse in lentissima ripresa, dopo il crollo fino al 48,6% delle coperture verificatosi nel 2014 in seguito al cosiddetto “caso Fluad”. Qualcuno ricorderà quella crisi, proprio all’inizio della campagna vaccinale, quando errori di comunicazione istituzionale e un comportamento irresponsabile da parte di alcuni organi di stampa e programmi televisivi scatenò il panico sulla base di alcuni decessi, poi dimostratisi non correlabili alla vaccinazione.
L’autunno del 2020, paradossalmente, ha segnato una svolta: forse per effetto della paura indotta dalla pandemia, forse nella (falsa) speranza che questa vaccinazione potesse essere utile anche nei confronti di SARS-CoV-2, per cui allora non avevamo ancora a disposizione un vaccino, l’anno scorso c’è stata un’impennata delle vaccinazioni, tanto che molte Regioni si sono trovate in difficoltà per carenza di dosi, rivelatesi insufficienti rispetto a una domanda molto superiore a quella degli anni precedenti. Per la stagione 2020-2021, infatti, in Italia si è protetto contro l’influenza il 65,3% degli anziani e individui a rischio e il 23,7% della popolazione generale, contro il 16,8% dell’anno precedente.
Il recupero è stato paradossale perché l’inverno scorso, a dire il vero, l’influenza non si è vista. Le reti di sorveglianza non hanno identificato nemmeno un campione positivo, nessun virus influenzale è stato identificato sul territorio nazionale. Difficile dire con certezza se si sia verificata una competizione tra i diversi virus o se, più probabilmente, le misure di igiene e distanziamento adottate per contrastare la pandemia abbiano impedito a un virus meno contagioso di SARS-CoV-2 come quello influenzale di diffondersi, in tutto il mondo.
Certo che la rarità dei casi di influenza individuati nell’inverno australe del 2020, corrispondente alla nostra estate, lasciava immaginare che almeno dell’influenza, l’autunno scorso, alle soglie della seconda grande ondata pandemica, non ci si doveva preoccupare.
Anche quest’anno, in tutta l’Australia, al 10 ottobre 2021, si erano registrati solo 550 casi, per lo più individuati in persone provenienti dall’India: un record minimo assoluto, con nemmeno un morto di influenza.
Qualcuno parla addirittura di cladi o lignaggi spariti per sempre.
La situazione però è ben diversa dall’anno scorso. Ovunque si stanno sollevando le restrizioni che invece finora hanno interessato anche l’Oceania. Torniamo a stare in luoghi affollati e a vederci con gli amici. Una maggiore abitudine all’uso dei gel disinfettanti e l’uso delle mascherine sui mezzi pubblici potrebbero ancora contenere i contagi, ma non possiamo stare tranquilli come l’anno scorso.
L’influenza potrebbe arrivare, e trovarci più indifesi, con un sistema immunitario che per due anni non ha incrociato virus influenzali sulla sua strada. L’incertezza c’è sempre, ma quest’anno il principio di precauzione consiglia di vaccinarsi: alzare ulteriormente le buone coperture ottenute l’anno scorso non potrà portare che vantaggi.
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