Si dice in Villa - Chi decide il fine vita?
- Daniela Ovadia — Agenzia Zoe
- Attualità mediche
di Roberta Villa
Ci sono temi controversi e molto polarizzanti in cui trovo difficile, quasi impossibile, prendere posizione con la stessa convinzione che osservo in amici o familiari con cui per il resto condivido principi e valori. L’idea che mi mette più in difficoltà è quella delle disposizioni anticipate di trattamento, o testamento biologico, con cui si presume che una persona maggiorenne e capace di intendere e di volere esprima le proprie intenzioni su interventi e cure, in previsione di una eventuale futura incapacità a prendere decisioni in autonomia. Sia chiaro: non metto in dubbio il diritto di ognuno a decidere per sé, a rifiutare un trattamento, a essere pienamente informato delle proprie condizioni per poter fare le proprie scelte in maniera libera e consapevole nel momento in cui ci si trova davanti a una scelta. Quel che mi chiedo è se la persona che firma un documento in anticipo è poi davvero la stessa che si ritrova in una condizione difficile, tra la vita e la morte, con dolore o disabilità di diverso tipo, se quando sta bene è in condizioni di decidere per il sé che sarà dopo mesi o anni, dopo l’incidente o durante la malattia.
La prima persona che mi fece pensare a questo, tanti tanti anni fa, quando cominciavo a fare le prime interviste a medici e scienziati, era un neurologo, che da sempre si occupava di persone colpite dalla malattia di Alzheimer. “Vedi”, mi disse, “nessuna di queste persone avrebbe accettato di trovarsi in questa condizione, eppure io non posso escludere che nel momento in cui sono portate fuori, a fare un giro nel parco, la contentezza che esprimono non sia sincera”. Come possiamo sapere che non gustino comunque i giorni e gli anni che gli sono concessi? E quanti esempi abbiamo di persone con gravi disabilità acquisite, dal pilota Alex Zanardi alla schermitrice Bebe Vio, dal nuotatore Manuel Bertuzzo a tanti altri, che hanno saputo ridare senso a una vita così diversa da quella che avrebbero progettato, una vita che, se avessero potuto scegliere a priori, forse avrebbero rifiutato?
Certo, non è così per tutti. Molti altri maledicono il momento in cui qualcuno ha deciso di rianimarli, di dare loro un’altra chance. Ma la verità è che nessun documento anticipato, nemmeno il più dettagliato, potrà mai entrare nel merito delle mille situazioni sanitarie in cui ci si può trovare. Leggo dal sito del Ministero della salute: “È importante prima di scrivere una DAT acquisire adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle proprie scelte relative al rifiuto o consenso a determinati accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche e singoli trattamenti sanitari (es. nutrizione artificiale e idratazione artificiale)”. Ma quando si entra nel dettaglio, non è così facile intendersi. Quando una persona è in condizioni critiche, i medici che intervengono lo fanno quasi sempre in una situazione di incertezza: quando per esempio si opera a livello cerebrale o quando si rianima una persona in arresto cardiaco, è spesso difficile prevedere a priori come andranno le cose, se salvare la vita al paziente può comportare di lasciargli delle disabilità, e quali, e quanto irreversibili. È sempre un calcolo delle probabilità, e anche quando queste sono a favore, non si può escludere che poi le cose vadano male. Nessuno vuole l’accanimento terapeutico, ma chi nega a cuor leggero la possibilità di sopravvivere a una persona magari ancora giovane? Credo che nessuno firmi per essere tenuto in vita in stato vegetativo, ma non è mai questo l’obiettivo a priori di un qualunque trattamento chirurgico o di rianimazione. C’è sempre una speranza, altrimenti non si farebbe.
E la speranza a volte è più forte di qualunque ragionamento. La persona più intelligente e razionale che conosco, un uomo che per tutta la vita ha studiato la scienza delle decisioni, ottenendo una posizione professionale di altissimo livello in campo internazionale, ha espresso mesi fa le sue volontà come ci si aspetta che avrebbe fatto qualunque persona col suo background agnostico e razionalista. Sapendo di avere un tumore particolarmente aggressivo, scuoteva le spalle: “Nel grande ordine delle cose non è una questione così importante” diceva. “Non ho paura di morire. I miei figli sono grandi, posso andarmene senza problemi”.
Ora, invece, che le metastasi cerebrali gli hanno compromesso diversi aspetti del linguaggio, quando riesce a comunicare qualcosa è sempre per mostrare la sua volontà di insistere: davanti ai farmaci riesce stentatamente a dire “continuiamo”; davanti alla fisioterapista che gli propone semplici esercizi per compensare l’emiparesi da cui è stato colpito, li vuole ripetere più di quanto gli è chiesto; lotta con se stesso per mettere in fila due parole; è felice se guarda la sua compagna o qualcuno lo va a trovare; invece che di scalare la Grigna, è contento di una breve passeggiata in carrozzina. A giugno, quando aveva ancora solo leggeri, occasionali rallentamenti, si chiedeva come accettare quella che chiamava la propria “menomazione”. Ora gli interessa solo vivere, anche se vivere significa fare i conti con una vita che “l’altro lui”, il “lui di prima” non avrebbe mai accettato. È ancora in grado di farlo capire, almeno a gesti. Come possiamo escludere che per altri non sia così? Voleva che gli si dicesse tutto e invece ora sembra non voglia capire che è alla fine. E la sua compagna rispetta questa che pare essere la sua volontà, diversa da quella che avrebbe espresso un anno fa.
L’unica via che mi sembra praticabile, per fortuna prevista dalla disposizioni anticipate, è quella di incaricare un fiduciario che davvero ci conosce, che ci vuole bene, che è in grado di capire non solo quello che desideriamo quando siamo sani e capaci di intendere e di volere, ma che potremmo volere per noi qualora ci trovassimo in una situazione di maggiore fragilità. Lui ce l’ha, ed è una persona che sta facendo le scelte migliori per lui. Designiamolo per noi e, come medici, accertiamoci che anche i nostri assistiti facciano lo stesso.
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