Sepsi, l’infusione prolungata dell’antibiotico è meglio di quella intermittente?
- Elena Riboldi
- Uniflash
I risultati dello studio MERCY suggeriscono che gli esiti clinici dei pazienti con sepsi in condizioni critiche non sono significativamente diversi se la terapia antibiotica con meropenem è somministrata mediante infusione continua o mediante infusione intermittente.
Ciò che è stato osservato in questo studio, sponsorizzato dall’AIFA e coordinato dall’Ospedale San Raffaele di Milano, contrasta con quanto suggerito da altri studi e con le metanalisi che indicano che l’infusione continua di antibiotici β-lattamici è superiore alla somministrazione intermittente nel ridurre la mortalità nei pazienti con sepsi. Nonostante l’alta qualità dell’evidenza è possibile che i nuovi dati non portino a cambiare una pratica implementata in molti ospedali.
Perché scegliere l’infusione continua?
L’intento con cui si è iniziato a somministrare gli antibiotici in infusione continua è stato controbilanciare la necessità di fare qualcosa per ridurre l’alta mortalità associata alla sepsi con quella di contrastare l’antibiotico-resistenza. L’infusione continua permette di mantenere la concentrazione sierica del β-lattamico costante e sopra alla concentrazione minima inibitoria (MIC) del patogeno, aumentandone l’efficacia, e contemporaneamente ostacolare la selezione di ceppi resistenti. Questa modalità di somministrazione risulta particolarmente vantaggiosa se a causare la sepsi è un batterio Gram-negativo (con una MIC più alta) e quando il paziente è in condizioni critiche (uno stato in cui la farmacocinetica può risultare alterata).
Sono stati condotti molti studi sull’argomento che hanno dato risultati eterogenei. Tuttavia, diverse analisi aggregate hanno suggerito che l’infusione prolungata riduce la mortalità e/o aumenta il tasso di cura. Sulla scorta di queste evidenze molti ospedali hanno implementato l’infusione prolungata dei β-lattamici e la Surviving Sepsis Campaign ha incluso tale pratica nelle linee guida come raccomandazione debole.
Lo studio MERCY
Lo studio è stato condotto in 31 unità di terapia intensiva (TI) di 4 nazioni (Italia, Croazia, Kazakistan e Russia). Sono stati arruolati 607 pazienti critici con sepsi o shock settico a cui il medico curante aveva prescritto il meropenem. I pazienti sono stati randomizzati (1:1) per ricevere la terapia antibiotica in infusione continua o intermittente. L’esito primario composito comprendeva la mortalità per ogni causa e la comparsa di batteri con pan-resistenza o resistenza estensiva al giorno 28.
Non vi erano differenze significative tra i gruppi sia per quanto riguarda l’esito primario (47% con infusione continua e 49% con infusione intermittente; P=0,60) che gli esiti secondari, inclusa la mortalità a 90 giorni (42% in entrambi i gruppi), la mortalità a 28 giorni (30% contro 33%; P=0,50) e la comparsa di ceppi resistenti al giorno 28 (24% contro 25%; P=0,70). Non sono stati identificati sottogruppi con esiti differenti.
Punti di forza e debolezza
In un editoriale, la pneumologa Claire N. Shappell e i medici di terapia intensiva Michael Klompas e Chanu Rhee del Brigham and Women’s Hospital/Harvard Medical School fanno una disamina completa dello studio MERCY. Riconoscono che si tratta di un trial internazionale ben condotto, con un disegno rigoroso in doppio-cieco e un campione più ampio rispetto agli studi precedenti. Sono stati inclusi pazienti critici e con batteri resistenti, quelli che dovrebbero beneficiare di più dall’infusione prolungata.
D’altra parte, prima della randomizzazione i pazienti sono stati diversi giorni in ospedale e in TI e molti erano già in cura con antibiotici, quindi altre condizioni che hanno motivato il ricovero potrebbero aver contribuito alla prognosi. In più, solo il 10% dei partecipanti aveva un’infezione del torrente ematico confermata e il campione potrebbe essere stato insufficiente per individuare differenze piccole ma clinicamente significative. Infine, non si possono estendere i risultati ad altri β-lattamici perché almeno una metanalisi ha suggerito che i benefici possono essere agente-specifici.
“Non è chiaro se il trial MERCY influenzerà le linee guida, specialmente perché non ci sono evidenze di danni con l’infusione prolungata – commentano gli esperti – Con poco da perdere in termini di sicurezza o costi, sia i medici che gli autori delle linee guida faranno fatica a ignorare la potenziale riduzione della mortalità riportata nelle precedenti metanalisi”.
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