Riflettori puntati sul rischio di trombosi nei pazienti oncologici
- Cristina Ferrario — Agenzia Zoe
- Attualità mediche
Oltre il 70% dei pazienti oncologici non sa di essere più a rischio di trombosi venosa profonda rispetto alla popolazione generale ed è quindi molto importante migliorare la comunicazione di queste tematiche da parte dei medici.
Lo spiegano sulla rivista Cancer Treatment and Research Communications gli autori di un articolo nel quale vengono riportati alcuni dei risultati di un sondaggio svolto dalla European Cancer Patient Coalition (ECPC). “Si tratta del primo sondaggio pan-europeo sulla trombosi associata al cancro (cancer-associated thrombosis, CAT) nato con l’intento di valutare la consapevolezza dei pazienti oncologici sul rischio di CAT, sui sintomi del disturbo e sulle eventuali opzioni di prevenzione e cura” scrivono gli autori. “L’idea era quella di creare una sorta di punto di partenza sul quale basare le successive iniziative di comunicazione e informazione e con il quale confrontare i risultati di eventuali interventi sul campo” aggiungono.
Il sondaggio nasce in seguito a una tavola rotonda alla quale hanno preso parte oncologi, decisori politici e rappresentanti dei pazienti, istituita per discutere e fare una revisione dei dati e degli unmet need legati al rischio di CAT e al desiderio dei pazienti di essere più informati sul tema.
“Dalla discussione è emersa una situazione piuttosto statica negli anni e la necessità di una maggior conoscenza della CAT sia da parte dei medici che dei pazienti in particolare per quanto riguarda la prevenzione primaria e secondaria” si legge nell’articolo.
Da queste premesse è partita l’idea del sondaggio pan-Europeo da parte di ECPC, da molti considerata “la voce dei pazienti oncologici in Europa”, che ha coinvolto 6 paesi (Francia, Germania, Grecia, Italia, Regno Unito e Spagna) e 1.365 pazienti/caregiver e i cui risultati sono stati presentati per la prima volta a fine 2018 in occasione del World thrombosis day.
Anna Falanga, primo nome dell’articolo recentemente pubblicato, ci guida nella comprensione dei risultati e ci aiuta a capire come migliorare la consapevolezza dei pazienti oncologici sulla CAT.
“Sappiamo che la trombosi venosa profonda colpisce circa il 20% dei pazienti oncologici che hanno quindi un rischio 4-5 volte più alto rispetto alla popolazione generale” ricorda l’esperta, professore di ematologia all’Università Bicocca di Milano e a capo del dipartimento di Immunoematologia e Medicina Trasfusionale e del Centro di Trombosi ed Emostasi all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.
“L’associazione tra trombosi e cancro è nota sin dal XIX secolo, ma la consapevolezza e l’attenzione al problema non ha assunto dimensioni degne di nota fino alla metà del secolo scorso, inizialmente solo in termini di ricerca di base, con grandi passi avanti nella comprensione dei meccanismi di tale associazione, e solo più recentemente anche con studi clinici che hanno risvegliato l’interesse anche in professionisti sanitari che prima non prestavano attenzione al tema” spiega.
I dati in sintesi
Un dato emerge con forza dal sondaggio europeo: circa 3 partecipanti su 4 (72%) non erano a conoscenza del maggior rischio di trombosi legata al cancro e ai trattamenti anti-tumorali. “Abbiamo chiesto di collocare la propria comprensione della CAT su una scala da 1 (bassa) a 10 (alta) e il punteggio medio è risultato pari a 4,1. Solo il 21% dei pazienti ha indicato un punteggio pari o superiore a 7 e non abbiamo osservato particolari differenze tra i paesi coinvolti” scrivono gli autori, ricordando che nel sondaggio sono state anche valutate le informazioni sul tema fornite dei medici.
Ebbene, il 35% dei pazienti ha ricevuto informazioni appena prima o immediatamente dopo la diagnosi di cancro, ma preoccupa il fatto che un paziente su 4 (26%) ha scoperto di essere più a rischio solo quando ha sviluppato un trombo. Anche in questo caso la situazione è risultata simile tra i diversi paesi. “Non dimentichiamo che la patologia oncologica e i suoi trattamenti sono caratterizzati da numerosi effetti collaterali a volte anche molto pesanti e di conseguenza la trombosi potrebbe in un certo senso sembrare un problema minore. Ma in realtà non lo è, anzi resta una importante causa di mortalità e morbilità tra i pazienti oncologici” afferma Falanga.
Quando si parla di prevenzione, la maggior parte dei partecipanti (87%) ha mostrato di conoscere i benefici legati all’attività fisica, in particolare le passeggiate, leggermente inferiori le percentuali rilevate per lo smettere di fumare (75%) e ancora più basse quelle legate al mantenimento della corretta idratazione (63%) e allo stretching degli arti inferiori (55%).
Sul riconoscimento dei sintomi, la situazione mostra differenze significative tra i paesi ma, in generale, il 73% dei partecipanti ha dichiarato di sapere che un gonfiore a piede, caviglia o gamba potrebbe essere un segno di trombosi venosa profonda e il 71% che la mancanza di fiato potrebbe indicare la presenza di embolia polmonare. “Altri sintomi sono invece meno conosciuti: per esempio crampi, dolore e indurimento (spesso a livello del polpaccio) come possibili segni di trombosi venosa profonda e un battito cardiaco irregolare come un potenziale campanello di allarme per l’embolia polmonare” si legge nell’articolo.
Infine, in termini di trattamento il sondaggio ha messo in luce che praticamente tutti i partecipanti erano consapevoli del ruolo degli anticoagulanti nel trattamento della trombosi, ma in realtà solo il 41% di chi li stava assumendo era stato informato sui possibili effetti collaterali del trattamento.
Fotografia dall’Italia
Il report con i risultati completi del sondaggio europeo permette di entrare molto in dettaglio, presentando, oltre ai risultati generali, anche quelli ottenuti nei singoli paesi.
I dati italiani, sulla base delle risposte di 246 soggetti, dimostrano che solo il 27% dei pazienti/caregiver era a conoscenza del maggior rischio di trombosi dopo diagnosi di cancro, un dato perfettamente in linea con i risultati generali del sondaggio, anche se il punteggio medio sulla scala da 1 a 10 era inferiore a quello generale (3,3/10 rispetto a 4,1/10). La conoscenza dei fattori di rischio ha mostrato grande variabilità a seconda delle voci: quasi 9 pazienti su 10 (89%) erano consapevoli del rischio legato all’inattività, ma solo per poco più della metà (52%) era noto quello associato alla radioterapia. Il rischio legato a chirurgia e chemioterapia era invece noto al 75% dei soggetti intervistati. “A tutti gli effetti, le diverse terapie anti-tumorali possono influenzare in modo importante il rischio di trombosi. E questo vale anche per le terapie più recenti come l’immunoterapia” afferma Falanga. In termini di informazione sul rischio di CAT, nella maggior parte dei casi gli intervistati hanno dichiarato di aver ricevuto comunicazioni orali, in genere dal medico in ospedale (11%) e il 6% ha dichiarato di aver scoperto del rischio grazie a ricerche personali, spesso online. Anche in Italia, 1 paziente su 4 (24%) ha scoperto del rischio di trombosi dopo aver sofferto per un trombo. Le risposte alle domande relative alla conoscenza dei sintomi dimostrano che il 58% dei pazienti/caregiver italiani sa che il gonfiore agli arti inferiori può essere un sintomo di trombosi venosa profonda e la stessa percentuale sa che il “fiato corto” potrebbe indicare un’embolia polmonare.
Sulle azioni di prevenzione il quadro è piuttosto variabile: il 74% è consapevole dell’importanza di camminare, ma le percentuali scendono al 57% quando si tratta di smettere di fumare e al 35% se si parla di muovere i piedi. Infine, per quanto riguarda il trattamento con anticoagulanti (presente nel 41% degli intervistati italiani), il 53% dei soggetti in terapia ha dichiarato di essere stato informato sui possibili effetti collaterali dei trattamenti.
Cosa fare e quando farlo?
“Il fatto che ancora oggi i tassi di CAT tra i pazienti oncologici siano ancora elevati nonostante la disponibilità di linee guida e trattamenti efficaci fa pensare a una scarsa azione di prevenzione e uno scarso riconoscimento da parte dei medici di questa problematica” si legge nell’articolo.
I risultati del sondaggio di ECPC confermano inoltre quelli di altri precedenti studi, facendo emergere una scarsa conoscenza della CAT da parte dei pazienti e la necessità di un dialogo più intenso tra medico e paziente.
Che fare dunque? “Come emerso da precedenti studi, le stesse esperienze riportate dai pazienti devono essere un insegnamento per il personale sanitario” scrivono gli esperti. “Quando si arriva alla trombosi, le possibilità di prevenzione – che dovrebbe essere l’obiettivo primario del team di chirurghi, oncologi e palliativisti – è ormai sfumata” aggiungono.
“Tutti i membri dell’equipe che si prende cura del paziente oncologico, inclusi infermieri e chirurghi, dovrebbero fare di più a tutti i livelli del percorso per essere certi che i pazienti siano consapevoli della CAT e del proprio rischio di sviluppare coaguli” dice Falanga, spiegando che in questo lavoro di gruppo il medico di medicina generale svolge un ruolo di primo piano. “Questi professionisti rappresentano un avamposto, sono tra i primi a poter sospettare una trombosi e devono quindi essere ben consapevoli dell’incremento del rischio tra i pazienti oncologici” precisa. Gli esperti concordano sul fatto che l’approccio multidisciplinare è fondamentale in questo contesto: all’interno del team i ruoli devono essere chiari: è fondamentale stabilire chi fa cosa anche in termini di educazione e informazione del paziente” precisa.
e propongono anche un esempio di iniziativa di successo: il programma Venous Thromboembolism Prevention in the Ambulatory Cancer Clinic (VTE-PACC) proposto dagli esperti dell’Università del Vermont descritto in un recente articolo su JCO Oncology Practice.
Infine, sono disponibili numerose risorse online che possono aiutare il medico a comunicare con il paziente e a spiegare i rischi legati a CAT lungo tutto il percorso di cura. Tra questi anche la sessione dedicata alla CAT presente sul sito dei ECPC (CAT - Be Blood Conscious).
“Tenendo come punto di partenza i risultati del sondaggio ECPC, abbiamo la responsabilità spiegare ai pazienti oncologici come identificare i segni e i sintomi di CAT per poter arrivare più rapidamente alla diagnosi e al trattamento” concludono gli autori.
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