Rallentare l’Alzheimer con un anticorpo, cosa ne pensano gli esperti

  • Elena Riboldi
  • Uniflash
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I risultati di uno studio clinico di fase 3, appena pubblicati su JAMA, indicano che l’anticorpo anti-β-amiloide donanemab rallenta la progressione del morbo di Alzheimer (AD) in pazienti che mostrano i primi sintomi della patologia. L’articolo è sono stato accolto con molto interesse, come dimostrano i quattro editoriali di accompagnamento. Gli esperti si sono espressi su benefici, rischi e implicazioni dell’uso di questa classe di farmaci.

 

Lo studio TRAILBLAZER-ALZ 2

Sono stati arruolati 1.376 pazienti sintomatici con AD iniziale (lieve deficit cognitivo/demenza lieve) e patologia amiloide e tau dimostrata. I partecipanti sono stati randomizzati per ricevere donanemab o placebo iv ogni 4 settimane per 72 settimane. I pazienti che ricevevano donanemab erano passati al placebo quando la PET mostrava una diminuzione dell’amiloide sotto una certa soglia.

Alla settimana 76, il 76,4% dei pazienti aveva una clearance completa delle placche. La variazione media del punteggio iADRS, endpoint primario, era -6,02 con donanemab e -9,27 con placebo (differenza 3,25 [95%CI 1,88-4,62]; P<0,001; corrisponde a un rallentamento del 35,1% della progressione) nella popolazione con tau medio-bassa e -10,2 con donanemab e -13,1 con placebo (differenza 2,92 [1,51-4,33]; P<0,001; corrisponde a un rallentamento del 22,3%) nella popolazione totale. Anche la diminuzione nel punteggio CDR-SB era più bassa con donanemab. 

Come visto per altri farmaci anti-amiloide, donanemab si associa ad anomalie di imaging correlate all'amiloide (ARIA). L’1,6% dei pazienti del gruppo donanemab è andato incontro ad ARIA gravi e ha richiesto terapie di sostegno e/o corticosteroidi; 3 pazienti sono poi deceduti.

 

È un successo?

“Donanemab ha mostrato un’impressionante capacità di rimuovere l’amiloide dal cervello per portare a quello che può essere classificato come uno straordinario exploit della scienza oppure come un risultato statisticamente significativo ma minimamente rilevante dal punto di vista clinico: i pazienti peggiorano meno – commentano in un primo editoriale Eric W. Widera (University of California, San Francisco), Sharon A. Brangman (SUNY Upstate Medical University) e Nathaniel A. Chin (University of Wisconsin), sottolineando come la variazione nell’endpoint sia piccola in termini assoluti. Tuttavia, rallentare la progressione di tre-sei mesi come visto con donanemab permette a qualcuno di restare con un deficit cognitivo tenue o una demenza lieve per quel tempo. Inoltre, il 47% dei partecipanti nel gruppo tau medio-bassa trattato con donanemab era considerato stabile a 1 anno rispetto al 29% dei partecipanti del gruppo placebo. Per qualcuno questo può essere considerato clinicamente e personalmente rilevante”.

“Da un punto di vista più critico i modesti benefici non sarebbero in discussione da parte di pazienti, medici e pagatori se gli anticorpi anti-amiloide fossero senza rischi, economici e di facile somministrazione. Tuttavia, non sono niente di tutto questo” aggiungono i tre esperti, discutendo punto per punto l’affermazione. Nel trial sono stati registrati 3 decessi che potrebbero essere il risultato dell’indebolimento dei vasi cerebrali conseguente alla rimozione delle placche amiloidi. Chi prende anticoagulanti, è APOE ε4 omozigote o ha un’angiopatia cerebrale amiloide che potrebbero predisporre a questo rischio. L’impegno di risorse sarebbe alto non solo per il costo del farmaco, ma per gli esami necessari alla somministrazione e al follow-up (biomarcatori, genotipizzazione APOE, MR iniziale e a intervalli regolari, PET per stabilire quando le placche sono state rimosse a sufficienza per interrompere il trattamento). 

Il sistema sanitario dovrà investire non poco per facilitare la diagnosi precoce dell’AD in assistenza primaria, creare policies per l’eleggibilità, la somministrazione e il follow-up (che potrebbero essere diversi per i vari anticorpi anti-amiloide), potenziare i servizi di radiologia e creare protocolli e strumenti informatici per gestire i pazienti. “In definitiva, i nuovi trattamenti come il donanemab cambieranno non solo il panorama della ricerca sull’AD, ma anche quello della clinica – concludono gli autori dell’editoriale – Una diagnosi tempestiva e accurata, una discussione ponderata su benefici e rischi individuali e un’enfasi sulle cure croniche non sono mai state più importanti”.

 

È sostenibile?

“Una preoccupazione ovvia con l’introduzione dei nuovi agenti per l’AD è la loro sostenibilità sia per la collettività che per il singolo paziente – commenta Meredith B. Rosenthal (Harvard School of Public Health, Boston) – Se donanemab (e altri futuri anticorpi monoclonali per l’AD) ricevono l’approvazione dell’FDA e gli viene assegnato il prezzo atteso, Medicare, Medicaid e altri assicuratori potrebbero vedere un marcato aumento di spesa”. 

Il costo del farmaco non sarebbe l’unico motivo per cui l’accessibilità non sarebbe omogeneamente distribuita nella popolazione: bisogna infatti tenere conto degli spostamenti necessari per ricevere le infusioni e della necessità di poter fare riferimento a un centro con servizi di imaging di alto livello (con relativi costi) per il follow-up, un problema che potrebbe essere particolarmente rilevante nelle aree rurali.

“Per assicurare un accesso più equo i governi statali o federali potrebbero accantonare delle risorse per finanziare le cure ai pazienti che non sono assicurati o non lo sono a sufficienza – propone Rosenthal, evidenziando poi il limite di questa scelta – Tuttavia, fare così solleva un problema di equità per pazienti bisognosi di altri trattamenti efficaci per condizioni che hanno conseguenze sulla salute simili all’AD”.

 

È per tutti?

Jennifer J. Manly (Taub Institute for Research on Alzheimer’s Disease, New York) e Kacie D. Deters (University of California, Los Angeles) rimarcano che il 96,2% dei partecipanti al trial era bianco e che quindi non ci sono prove di efficacia e sicurezza del donanemab in gruppi etnici che soffrono più di altri il declino funzionale dovuto al declino cognitivo. “È fondamentale che i medici, i pazienti e le famiglie comprendano i limiti di quanto sappiamo – scrivono – I medici e il pubblico dovranno mettere sui piatti della bilancia il potenziale beneficio del trattamento (mediamente un ritardo di circa 4 mesi nella progressione) e i costi finanziari e in termini di qualità della vita di infusioni, monitoraggio RM, rischio di ARIA e perdita di volume cerebrale”.

“Dati i rigorosi criteri clinici e di biomarcatori utilizzati per la selezione dei pazienti, donanemab e altri anticorpi monoclonali anti-amiloide possono ad oggi essere presi in considerazione solo in un sottogruppo di pazienti e i risultati attuali suggeriscono che anche in questo sottogruppo i pazienti con elevata patologia tau potrebbero non trarre beneficio dal trattamento – commentano Gil D. Rabinovici e Renaud La Joie (University of California, San Francisco) – Anche se il rallentamento del declino clinico visto in questo trial rappresentano un importante punto di partenza e potrebbe essere considerato clinicamente rilevante per alcuni pazienti, è ancora necessario lo sviluppo di trattamento con maggiore impatto e più sicuro”.