Procreazione assistita, le probabilità di successo migliorano con la dieta giusta
- Elena Riboldi
- Uniflash
Nel percorso di procreazione medicalmente assistita (PMA) andrebbe probabilmente incluso anche un incontro col nutrizionista. Almeno questo è quanto suggeriscono i risultati di uno studio dell’Università di Harvard in base ai quali adottare un buon regime alimentare prima del trattamento per l’infertilità, anche se non sembra influenzare le probabilità che la gravidanza si instauri o quelle di dare alla luce un neonato vivo, si associa a una eventualità più bassa che la gravidanza si interrompa spontaneamente.
Lo studio EARTH
I risultati appena pubblicati sulla rivista JAMA Network Open si riferiscono allo studio EARTH (Environment and Reproductive Health), lanciato quasi due decenni fa con l’obiettivo di individuare i determinanti ambientali e nutrizionali della fertilità.
Alle donne che hanno affrontato il percorso di PMA presso il Massachusetts General Hospital Fertility Center tra il 2007 e il 2019 è stato chiesto di compilare alcuni questionari relativi alle caratteristiche demografiche, alla storia medica e riproduttiva, alle abitudini (es. attività fisica) e all’alimentazione.
In base al consumo dichiarato dei vari alimenti è stata valutata la qualità della dieta di ogni partecipante. Sono state usate 8 diverse scale: dieta mediterranea secondo Trichopoulou (TMD) e secondo Panagiotakos (PMD), dieta mediterranea alternata (AMD), Healthy Eating Index (HEI), Alternate Healthy Eating Index (AHEI), American Heart Association (AHA), Dietary Approaches to Stop Hypertension (DASH) e dieta a base vegetale (PBD). Punteggi più alti indicavano una maggiore aderenza a questi schemi alimentari indicati per la prevenzione delle malattie cardiovascolari e di altre patologie croniche. Gli autori dello studio sono andati quindi a verificare se esisteva una relazione tra l’aderenza a una dieta salutare e gli esiti della PMA.
Rischio dimezzato
L’analisi ha riguardato 612 donne che avevano completato complessivamente 1.572 cicli di trattamento (804 cicli di inseminazione intrauterina e 768 cicli di fecondazione in vitro). Non è stata osservata nessuna associazione tra l’aderenza agli schemi alimentari in esame e la probabilità di gravidanza clinica (presenza di camera gestazionale a 6 settimane di gestazione) o di nascita di nato vivo (oltre le 24 settimane di gestazione).
È stata invece riscontrata un’associazione inversa tra l’aderenza agli schemi alimentari e il rischio di interruzione spontanea della gravidanza. Se si considera la dieta promossa dall’AHA, le donne con un punteggio compreso nel quartile più basso avevano una probabilità di perdita della gravidanza pari a 0,30 (95%CI 0,22-0,39), mentre quelle nel quartile più alto avevano una probabilità pari a 0,15 (95%CI 0,10-0,23). Sono stati osservati risultati simili per tutti gli altri schemi alimentari, ad eccezione della dieta a base vegetale.
Consigli nutrizionali
“Lo studio di Salas-Huetos e colleghi fornisce informazioni preziose sul possibile ruolo di una dieta salutare per il cuore nelle cure per l’infertilità” commentano in un editoriale Antonia F. Oladipo, ginecologa dell’Hackensack University Medical Center (New Jersey), e Tia Jackson-Bey, ginecologa specialista in infertilità dell’Icahn School of Medicine at Mount Sinai (New York).
Secondo le esperte americane lo studio presenta due limiti. Innanzitutto, il campione è molto omogeneo (donne bianche che vivono in una grande città, con un buon livello di istruzione, non fumatrici, fisicamente attive) e quindi i risultati potrebbero non essere generalizzabili. In secondo luogo, la dieta è stata valutata solo in occasione dell’arruolamento, non si sa se e come sia cambiata durante il percorso di PMA che può avere avuto una durata di diversi mesi o addirittura alcuni anni.
Al di là di questi limiti, i risultati dello studio vengono comunque ritenuti interessanti. “I medici dovrebbero usare queste informazioni per formulare raccomandazioni riguardo a una dieta sana a chi si rivolge loro per il trattamento dell’infertilità – concludono Oladipo e Jackson-Bay – Serviranno ulteriori ricerche per stabilire il nesso di causalità e individuare il regime alimentare ottimale per migliorare gli esiti della PMA”.
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