La sindrome di Sjögren non è un motivo per rinunciare alla maternità

  • Elena Riboldi
  • Uniflash
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Buone notizie per le donne con sindrome di Sjögren che desiderano avere figli: uno studio mostra, infatti, che la gravidanza in questa popolazione ha generalmente una buona prognosi sia per la madre che per il feto. Inoltre, i casi di flare (riacutizzazione) durante la gestazione sono infrequenti e solitamente non comportano cambiamenti di terapia. L’analisi di un centinaio di gravidanze suggerisce anche che le donne con anticorpi antifosfolipidi o anticorpi anti-ribonucleoproteina (anti-RNP) vadano monitorate con maggior attenzione perché questi fattori potrebbero essere associati a un rischio più alto di esiti avversi della gravidanza.

Quello pubblicato su Lancet Rheumatology è il primo studio prospettico ad affrontare il problema della gravidanza nelle donne con sindrome di Sjögren, finora ginecologi e reumatologi potevano basarsi solo su ciò che era riportato in serie di casi. L’informazione è assai rilevante in quanto, dato che l’età della popolazione ostetrica si sta alzando, le gravidanze tra le pazienti con questa sindrome, diagnosticata più frequentemente tra i 30 e i 50 anni, sono destinate ad aumentare.

 

Gravidanza e malattie reumatiche

Lo studio si basa sui dati raccolti dallo studio GR2 (Groupe de recherche sur la Grossesse et les Maladies Rares), uno studio multicentrico prospettico sulla gravidanza in donne con malattie rare e/o reumatiche avviato nel 2014 che coinvolge decine di centri francesi. Le donne gravide vengono inserite nello studio dai loro medici e vengono seguite fino a 12 mesi dopo il parto. Si tratta di uno studio osservazionale, pertanto qualunque decisione terapeutica è presa dai medici curanti.

Delle 1944 gravidanze nel registro GR2 al momento dell’analisi, 106 erano di 96 donne con sindrome di Sjögren primaria. Gli autori dello studio hanno valutato i fattori che si associavano ai flare (aumento ≥3 punti nel punteggio ESSDAI [EULAR Sjögren’s Syndrome Disease Activity Index]) e agli esiti avversi della gravidanza (morte fetale o neonatale, parto prematuro per insufficienza placentare, neonato piccolo per l’età gestazionale) nelle donne arrivate almeno alla 12a settimana di gestazione. Sono stati poi confrontati gli esiti delle gravidanze di donne incluse nel registro GR2 e di controlli matched nella popolazione generale presi dalla Enquête Nationale Périnatale 2016.

 

Dati rassicuranti

L’età mediana all’inizio della gravidanza era 33 anni (IQR 31-36). Il 90% delle donne aveva avuto attività sistemica di malattia in precedenza (ESSDAI score ≥1) e il 45% aveva attività sistemica al momento dell’inclusione. In 12 (13%) delle 93 gravidanze incluse nello studio alla 18a settimana di gestazione o prima si è verificato un flare; nessuno dei parametri alla baseline è risultato associato ai flare.

Nell’analisi relativa agli esiti avversi sono state escluse le gravidanze gemellari e un aborto medico. In 6 (7%) delle 88 gravidanze considerate si sono verificati esiti avversi. Per 55 gravidanze erano disponibili dati riguardo alla positività per gli anticorpi antifosfolipidi, positività che è risultata più frequente nelle gravidanze che hanno avuto esiti avversi (2 su 4 contro 2 su 51; P=0,023). Anche la positività per gli anticorpi anti-RNP era più frequente nelle gravidanze con esiti avversi, anche se la differenza non era statisticamente significativa.

Nello studio caso-controllo, gli esiti avversi hanno interessato 9 (9%) delle 105 gravidanze delle donne con sindrome di Sjögren e 28 (7%) delle 420 gravidanze matched. La sindrome di Sjögren primaria non è risultata significativamente associata agli esiti avversi della gravidanza (OR 1,31; 95%CI 0,53-2,98; P=0,52).

“Questo elegante studio osservazionale basato sulla coorte prospettica GR2 fornisce nuove informazioni che consentono a medici e operatori sanitari di rassicurare le donne con sindrome di Sjögren primaria che stanno pensando a una gravidanza – hanno commentato alcuni esperti danesi in un articolo che accompagna lo studio – Ci sono voluti 9 anni per raccogliere dati su 109 pazienti. Dobbiamo congratularci con il team dello studio GR2 per aver reso questa evidenza disponibile alla comunità medica e soprattutto alle nostre pazienti. Gli studi clinici che coinvolgono le donne incinte richiedono pazienza e pazienti”.