La pandemia ha fatto decollare l’impact factor dei giornali

  • Roberta Villa
  • Uniflash
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Il mondo delle pubblicazioni scientifiche sembra aver affrontato lo tsunami della pandemia come la Sicilia de “Il Gattopardo” ha fronteggiato l’arrivo dei Mille di Giuseppe Garibaldi: “Tutto cambia perché nulla cambi” sembra essere il motto che emerge dall’analisi dei dati degli ultimi tre anni, secondo i quali il sistema editoriale potrebbe essere stato travolto da Covid-19 meno di quanto sembri. 

Da un lato la tanto auspicata rivoluzione dell’open access che molti speravano non si è realizzata, ma, dall’altro, nonostante la quantità e la rapidità di paper pubblicati vorticosamente nei primi mesi del 2020, la loro qualità non è risultata alla fin fine tanto peggiore della media. 

 

L'open access non decolla

Chi sperava che la spallata della pandemia spalancasse le porte all’open access, infatti, è rimasto deluso. Eppure era lecito auspicare un cambiamento quando, a gennaio 2020, anche la maggior parte dei grandi editori sottoscrisse la proposta di Wellcome, uno dei più importanti finanziatori della ricerca a livello globale. Il documento impegnava a garantire che tutte le pubblicazioni relative a Covid-19 sottoposte a peer-review fossero immediatamente messe a disposizione di tutti, in open access o almeno accessibili gratuitamente per la durata dell’epidemia, e che, al momento della presentazione a una rivista, tutti i risultati della ricerca fossero condivisi immediatamente anche con l’Organizzazione mondiale della sanità e caricati su piattaforme aperte prima della peer review, senza che questo compromettesse poi la pubblicazione definitiva. 

Ma in realtà, solo il 5% circa dei lavori è uscito in preprint e meno della metà degli editori ha applicato fino in fondo il principio dell’open access: la maggior parte continua a mantenere i diritti commerciali degli articoli, pur avendo abbattuto il paywall. Una modalità definita di “bronzo”, per distinguerla dalla versione “oro” che consente anche la riproduzione dei contenuti. L’emergenza pandemica non sembra poi aver scalfito il sistema alla base: davanti alla non meno pericolosa crisi climatica, solo la metà circa dei risultati della ricerca sono aperti a tutti.

 

La caccia allo scoop scientifico

La corsa a pubblicare risultati relativi a Covid è stata inizialmente favorita dai tanti finanziamenti in campo e dalla visibilità che il tema offriva, mentre altri aspetti della ricerca erano messi in disparte. Questo valeva per i ricercatori, ma anche per le riviste, in qualche modo trascinate in una caccia allo scoop a cui erano forse poco abituate. Ma era come cercare un ago in un pagliaio: è stato calcolato che nel 2020 sono usciti circa 1,5 milioni di articoli, con un picco nel mese di aprile. Sulla scrivania dei redattori del New England Journal of Medicine ne arrivavano circa 200 al giorno: alle 885 testate mediche di Elsevier, le sottomissioni aumentarono del 60%, con circa 250.000 proposte Covid nel corso della prima ondata, mentre al BMJ e BMJ open, nello stesso periodo, ne giunsero poco meno di 4.400.

Davanti a questa valanga di carta, le riviste scientifiche in fondo si sono difese bene. Nonostante qualche clamoroso errore, come la leggerezza che portò alla pubblicazione da parte di Lancet di un lavoro sull’idrossiclorochina subito ritirato, secondo Retraction Watch il tasso di articoli che hanno subito questa sorte durante la pandemia non è stato superiore alla media.

Certo, la pandemia ha messo in evidenza gli elementi di criticità del sistema editoriale della scienza così come ha fatto nei confronti di tanti altri aspetti della nostra società, dall’inadeguatezza della medicina territoriale alle diseguaglianze socioeconomiche e di genere.

Lo stress test della pandemia ha messo in evidenza anche i ben noti limiti del perverso sistema “publish or perish” che affligge la ricerca, creando un’ulteriore distorsione dei discussi sistemi di valutazione dei ricercatori e delle riviste: dall’inizio del 2020 ad agosto 2021, gli articoli riguardanti Covid-19 in tutta la letteratura scientifica medica sono stati il 17%, ma hanno accumulato l’80% circa delle citazioni, per cui ciascun paper su Covid-19 riceveva in media 5 volte più citazioni di quelli che trattavano altri argomenti. 

L’effetto di questo fenomeno è l’enorme crescita nell’impact factor delle riviste mediche non specialistiche: tra il 2020 e il 2021 quello del New England è cresciuto da 91 a 176, quelli di BMJ e Lancet sono più che raddoppiati (rispettivamente da 40 a 96 e da 79 a 202), mentre JAMA ha quasi triplicato, da 56 a 157. Questo sì che potrebbe cambiare qualcosa, in un sistema che non è cambiato.