La pandemia ha colpito al cuore
- Roberta Villa
- Uniflash
Tra gli effetti inattesi della pandemia, o per lo meno tra i fenomeni che vi si sono associati, c’è il grande ritorno delle malattie e delle morti cardiovascolari che prevenzione e cure avevano fatto calare in maniera costante da decenni, almeno dagli anni Novanta del secolo scorso. Dal 2020, invece, la mortalità per malattie di cuore negli Stati Uniti ha avuto un’impennata trasversale a tutte le fasce di età adulta, senza distinzione di sesso ed etnia, sebbene il fenomeno sia più evidente tra i più giovani e negli afroamericani.
Secondo Rebecca C. Woodruff, epidemiologa dei Centri per la prevenzione e il controllo delle Malattie di Atlanta, l’aumento dei tassi di mortalità cardiovascolare nel 2020 ha rappresentato circa 5 anni persi di progresso nella popolazione generale e addirittura 10 nei due gruppi in cui il peggioramento è stato più evidente, appunto i giovani e gli afroamericani. Mentre dal 2010 al 2019 il tasso di mortalità cardiovascolare è calato di quasi il 10%, nel 2020 è risalito di oltre il 4%. Nella fascia di età 35-54 anni, l’incremento nel 2020 è stato addirittura del 12%, e negli adulti afroamericani di poco meno.
I ricercatori statunitensi, che hanno presentato i loro risultati ai primi di novembre all’American Heart Association’s Scientific Sessions 2022 di Chicago, hanno provato a cercare delle possibili spiegazioni. Scagionati i vaccini, introdotti solo alla fine del 2020 e distribuiti per lo più durante l’anno successivo, l’aumento di mortalità potrebbe essere ricondotto all’aumento di rischio di patologia cardiovascolare strettamente legata all’infezione da SARS-CoV-2. Questo spiegherebbe l’incremento tra i più giovani, dove Covid-19 potrebbe aver rappresentato un fattore di rischio acuto, andatosi a sommare ad altri che senza la pandemia avrebbero probabilmente prodotto i loro effetti in maniera più graduale nel tempo. Non si possono poi dimenticare le conseguenze del dilagare del virus sui servizi sanitari: in lunghi periodi dell’anno l’accesso ai sistemi sanitari è stato difficile per sovraccarico o temuto dalle persone che avevano paura di contagiarsi. Ciò potrebbe aver portato a ritardare visite e controlli, a sottovalutare i sintomi, e a ricevere trattamenti meno tempestivi ed efficaci.
La situazione in cui si è trovata gran parte della popolazione, pur con grandi differenze da Paese a Paese, può aver poi inciso sugli stili di vita, il tipo di alimentazione, la sedentarietà, l’uso di sostanze, tra cui alcol e tabacco. Questi determinanti sociali della salute incidono di più sui gruppi più svantaggiati dal punto di vista socioeconomico, e potrebbero così spiegare il peggiore andamento nei cittadini non bianchi.
Tra i fattori di rischio cardiovascolare più importanti e più trascurati all’inizio della pandemia è stata soprattutto l’ipertensione: le misurazioni di quasi 140.000 pazienti residenti in diverse parti degli Stati Uniti prima e dopo il 2020 hanno mostrato che, mentre fino al 2019 quasi 8 ipertesi su 10 mantenevano un buon controllo della pressione, questa quota nel corso del primo anno di pandemia è scesa di quasi 4 punti. Anche in questo caso i ricercatori, finanziati dai National Institutes of Health, sospettano che le difficoltà dei sistemi sanitari abbiano contribuito a questo risultato insieme con la carenza di sonno, l’alimentazione meno sana, la scarsa attività fisica.
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