La guerra minaccia la salute, anche a distanza
- Daniela Ovadia — Agenzia Zoe
- Attualità mediche
di Roberta Villa
Ci sono conseguenze della guerra in Ucraina che potrebbero produrre effetti importanti sul presente e sul futuro della medicina, non solo nei teatri bellici, ma anche in occidente.
Una a cui finora in pochi hanno pensato è l’interruzione dei trial clinici, decisa da molte aziende farmaceutiche. Secondo la Food and Drug Administration, prima dell’invasione, in Ucraina erano in corso 250 studi, di cui 117 relativi al cancro, altri nei confronti di molte altre condizioni tra cui schizofrenia, sclerosi multipla e covid-19.
L’Ucraina infatti è considerata una sede privilegiata per la conduzione di studi clinici: possiede medici e ricercatori preparati, anche se poco pagati. Il denaro che ricevono per ogni paziente in più incluso nei trial, quindi, fa loro comodo, e in più apprezzano l’opportunità di collaborare con colleghi di tutto il mondo. Gli scarsi finanziamenti alla sanità degli ultimi anni fanno sì che molti pazienti siano naive nei confronti dei trattamenti e partecipino volentieri alle randomizzazione per avere l’opportunità di ricevere cure migliori. Anche per questa grane disponibilità i siti ucraini raccoglievano pazienti da 3 a 7 volte più rapidamente di quelli occidentali. La centralizzazione della sanità, con la divisione dei pazienti in centri dedicati alle diverse specialità facilitava ulteriormente il raggiungimento di numeri statisticamente significativi.
La guerra ha cambiato tutto. I russi bombardano anche gli ospedali, medici e pazienti scappano, appena possono, soprattutto dai centri più a est, mentre in quelli occidentali, pieni di profughi, gli operatori sanitari sono impegnati nell’assistenza più che nella ricerca. La logistica, la consegna dei farmaci, la raccolta dei dati, la validità degli stessi non è più affidabile, dal momento che non si possono garantire condizioni stabili.
Occorre ripartire da un’altra parte. Trovare nuove collaborazioni, stipulare accordi, coinvolgere nuovi centri, reclutare i pazienti, impostare da capo tutto il lavoro. Un lavoro che richiede tempo. È troppo presto ora per stimare se e quali ricadute ciò potrà avere sullo sviluppo di nuove terapie o comunque sull’avanzamento della medicina, ma è difficile pensare che ciò non avrà nel tempo alcun impatto.
Si può invece toccare subito con mano l’effetto dell’enorme ondata di profughi in fuga dal Paese devastato dal conflitto. Nel momento in cui scriviamo sono oltre 4 milioni, di cui in un mese e mezzo circa 85.000 già arrivati in Italia, in un numero e con una velocità che non ha precedenti nella storia recente.
Più della metà sono donne, con oltre 30.000 minori, destinati ad aumentare rapidamente. Molte infatti arrivano in stato di gravidanza, più o meno avanzato, e si stima che il 15% di loro potrebbe necessitare di cure ostetriche di urgenza. Altre sono vittime di violenze, così come i loro bambini. Molti sono traumatizzati da ciò a cui hanno assistito, dai lutti che stanno vivendo. Gli specialisti e le strutture per la salute mentale, già insufficienti a gestire le necessità della popolazione negli anni passati, sovraccaricati poi dagli effetti della pandemia, dovrebbero ora fornire questa assistenza indispensabile e improrogabile. Le regioni si stanno occupando di questo, e di tutto il carico importante di bisogni di salute che queste persone portano con sé?
Poco più di un cittadino ucraino su tre era vaccinato contro Covid-19 prima dell’invasione e la circolazione del virus era maggiore che da noi. Non sappiamo quanti accettano l’iniezione che viene offerta loro all’ingresso in Italia. Ma le coperture vaccinali erano basse anche nei confronti di altre malattie, e il vaccino contro rotavirus nemmeno previsto nel piano nazionale. Occorrerà tenerne conto se dovessero arrivare bambini con la gastroenterite. La prevalenza di soggetti HIV positivi e portatori di tubercolosi, poi, è molto superiore alla media europea: individuare queste persone e offrire loro un’adeguata terapia è essenziale per loro e per noi. Due casi di poliomielite verificatisi a ottobre e gennaio avevano spinto l’UNICEF a programmare una campagna straordinaria di vaccinazione, poi fermata dal precipitare della situazione politica. Gli assembramenti e le difficili condizioni igieniche, il freddo e la fame a cui molti di questi profughi sono stati esposti prima di riuscire a raggiungere prima il loro confine e poi ad attraversare la nostra frontiera, arrivando qui, sono tutti fattori che possono aver favorito l’insorgenza di malattie infettive nei confronti delle quali occorrerà prestare particolare attenzione.
Se per i malati oncologici più gravi sono già stati previsti percorsi facilitati, non di minor rilievo sono le patologie croniche, dal diabete alle nefropatie. È molto concreto il rischio che molte persone, soprattutto anziane e meno scolarizzate, abbiano interrotto le loro cure, non abbiano portato con sé le proprie medicine, abbiano difficoltà a riferire le loro condizioni in una lingua sconosciuta.
L’ondata di questi pazienti arriva nel momento in cui la sanità italiana (ma probabilmente lo stesso vale per molti, se non tutti, gli altri Paesi) stava cercando di rimettere insieme i pezzi dopo lo tsunami della pandemia. Impoverita dalla gravissima carenza di medici e infermieri, soprattutto sul territorio, di cui abbiamo parlato nelle scorse settimane, si trova a dover gestire una nuova emergenza. Non può farlo da sola, senza la consapevolezza della politica che anche questa crisi, come quella pandemica, non è eludibile e non può essere gestita basandosi solo sulla buona volontà di chi sta in prima linea, le cui risorse sono ormai ridotte oltre i limiti.
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