di Roberta Villa
Dopo il coronavirus e il vaiolo delle scimmie, torna ad affacciarsi anche la polio. Nessun pericolo di epidemie come quella raccontata da Philip Roth nel romanzo Nemesi, ambientato negli anni Cinquanta proprio in quella New York che, dopo quasi dieci anni, ha registrato il mese scorso un caso di paralisi flaccida. Né si è segnalato a oggi alcun allarme in Italia, per ora, anche se la lezione dei casi più recenti dovrebbe averci insegnato quanto l’interconnessione del mondo di oggi sia tale per cui qualunque infezione non conosce frontiere. Il riscontro di virus tra loro geneticamente correlati in città lontane tra loro come Gerusalemme, Londra e New York indica che di polio occorre tornare a occuparsi. Con la difficoltà di spiegare al pubblico che questo virus ha paradossalmente origine proprio dai vaccini ma che, allo stesso tempo, solo i vaccini lo possono fermare. Anzi, proprio il calo delle coperture vaccinali è responsabile del suo ritorno sulla scena.
Contro la polio abbiamo a disposizione due prodotti diversi tra loro, ciascuno con i suoi pro e contro: quello iniettabile a virus inattivato, modificato dal prototipo di Jonas Salk, e quello orale a virus vivo e attenuato, messo a punto da Albert Sabin. In Italia oggi si usa solo il primo, inserito nell’esavalente somministrato ai bambini nei primi mesi di vita, mentre non si danno più le goccine sullo zucchero utilizzate in Italia fino all’inizio di questo secolo, quando il virus è stato dichiarato eradicato dall’Europa. Il vaccino orale ha infatti il vantaggio di bloccare la trasmissione del virus, ed è quindi indispensabile per eradicarlo dove circola in maniera sostenuta. In una situazione endemica, i virus vivi e attenuati eliminati con le feci dei soggetti vaccinati possono perfino contribuire ad allargare la protezione. Esiste tuttavia in rarissimi casi la possibilità che il virus recuperi la propria virulenza, e in un caso su un milione di soggetti vaccinati col prodotto vivo e attenuato, è possibile che si sviluppi la malattia. Per questo, dove il virus è ormai eradicato, si preferisce proteggere i singoli individui dalla malattia con quello inattivato, che tuttavia non blocca la trasmissione.
Dove la copertura è elevata, l’eventuale recupero di virulenza di un virus contenuto nel vaccino non crea problemi, ma se questo viene a contatto con una persona non vaccinata, questa ha circa una possibilità su cento di ammalarsi e andare incontro a una paralisi. Il rischio quindi resta minimo, soprattutto in Paesi come l’Italia dove la maggior parte della popolazione è vaccinata. Ma anche se a livello nazionale, anche dopo la flessione ricollegabile alla pandemia, la media dei bambini di due anni vaccinati è vicina al 94%, tra i più grandicelli il tasso scende molto, per cui a otto anni, per esempio, sono meno del 90%. Se poi si valutano le differenze regionali, è facile osservare sacche pericolosamente esposte al rischio: in Calabria, per esempio, i bambini di 8 anni vaccinati contro la polio sono il 77% e tra quelli di due anni nella Provincia di Bolzano si raggiunge appena l’80%. Anche gli adulti, come il giovane contagiato a New York, non possono stare al sicuro.
Nelle città in cui l’analisi delle acque reflue ha dimostrato la presenza del virus si sta provvedendo ai richiami nei più piccoli; da noi è bene almeno controllare di aver ricevuto a suo tempo le vaccinazioni raccomandate, e in caso contrario, provvedere.
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