COVID-19 – Quanto dura la protezione contro la re-infezione?

  • Elena Riboldi
  • Uniflash
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I risultati di una metanalisi pubblicata su The Lancet indicano che un’infezione da SARS-CoV-2 diminuisce dell’80% per almeno 40 settimane il rischio di contrarre nuovamente il virus. La protezione dalla re-infezione è però ridotta nel caso della variante omicron. Indipendentemente dalla variante, l’infezione pregressa riduce fortemente il rischio di sviluppare una forma grave di COVID-19, almeno tanto quanto un ciclo vaccinale completo con vaccini a mRNA. Gli autori della metanalisi sono perciò dell’idea che chi ha un’infezione documentata dovrebbe avere libero accesso ovunque sia richiesto il pass vaccinale (lavoro, viaggi, meeting…). Da noi sembra quasi ovvio perché il green pass europeo già tiene conto dell’infezione naturale, eppure non è così ovunque.

 

La metanalisi

I ricercatori del COVID-19 Forecasting Team hanno condotto una revisione sistematica della letteratura e identificato 65 studi in cui si stimava la riduzione del rischio di COVID-19 nei soggetti che erano già stati infettati da SARS-CoV-2. Gli studi analizzati, pubblicati prima di ottobre 2022, provenivano da 19 nazioni, inclusa l’Italia.

La metanalisi ha permesso di stabilire che la protezione contro la re-infezione era superiore all’82% per le varianti ancestrale, alfa, beta e delta, ma pari al 45% per la variante omicron BA.1. La protezione contro la forma sintomatica della malattia era sovrapponibile a quella contro la re-infezione (>82% e 44%). Al contrario, la protezione contro la forma grave di COVID-19 era superiore al 78% indipendentemente dalla variante del virus con cui il paziente era stato infettato la prima volta. La protezione contro la re-infezione diminuiva nel tempo, ma, se per le altre varianti (ancestrale, alfa, beta, delta) a 40 settimane era 79%, per la variante omicron BA.1 raggiungeva a malapena il 36%. A 40 settimane la protezione contro la malattia grave era del 90,2% per le varianti pre-omicron e del 88,9% per omicron BA.1.

Solo pochi studi presentavano dati relativi alle sottovarianti omicron. I pochi dati disponibili suggeriscono che la protezione dalla re-infezione e dalle forme sintomatiche o gravi di COVID-19 legate alle sottovarianti è più bassa se la prima infezione è con una variante pre-omicron, mentre è su livelli più elevati (eccezion fatta per BA.4 e BA.5) con la variante omicron. 

 

Le implicazioni

Gli autori dello studio identificano quattro importanti implicazioni dei risultati ottenuti. Prima di tutto è essenziale continuare a tracciare le infezioni e monitorare come si comportano le diverse varianti del virus. Secondo, le restrizioni agli spostamenti o l’accesso ai luoghi dovrebbero tenere conto sia dell’immunità data dalla vaccinazione che di quella fornita dall’infezione naturale. “Gli Stati hanno usato approcci differenti a questo riguardo – sottolineano – per esempio, l’immunità data da un’infezione pregressa è già considerata nell’eleggibilità per il certificato COVID in Europa ma non in nazioni come gli USA o l’Australia”. Terzo, l’infezione deve essere ampiamente considerata nelle linee guida relative ai richiami delle vaccinazioni anti-SARS-CoV-2. Quarto, quando emergono nuove varianti vanno condotti studi epidemiologici per valutare la protezione data dalle infezioni pregresse. 

“È importante però notare – puntualizzano gli autori – che la capacità di comprendere la protezione conferita dall’infezione, confrontando soggetti non vaccinati e infettati precedentemente con quelli non vaccinati e COVID-19 naïve è sempre più difficile per via del numero sempre più ridotto di persone che non sono vaccinate e che sono COVID-19 naïve”. Su questo concordano gli autori del commentario che accompagna l’articolo “Nel contesto di un’elevata immunità di popolazione, servono nuovi approcci di sorveglianza per valutare le conseguenze epidemiologiche delle nuove varianti e sottovarianti di SARS-CoV-2 – scrivono – Gli approcci possibili includono test sistematici all’interno della comunità (es. Office for National Statistics study in UK), analisi ripetute di grandi database aggiornati di routine e studi di coorte longitudinali”.