COVID-19: aggiornamento della settimana 21-11

  • Roberta Villa
  • Uniflash
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  • Risale da 307 a 353 per 100.000 abitanti a livello nazionale la curva dell’incidenza dei casi di covid-19 registrati, che già la scorsa settimana aveva rallentato la sua discesa. Cresce a 0,88 anche l’indice Rt sui casi sintomatici denunciati, certamente sottostimati rispetto alla realtà in una fase in cui la sorveglianza è stata di fatto abbandonata, con il valore massimo dell’intervallo di confidenza già oltre la soglia epidemica (range 0,74-1,19). Al 17 novembre erano cresciuti nel rilevamento del Ministero anche i tassi di occupazione delle aree mediche, dal 10 all’11%, e quello delle terapie intensive, dal 2 al 2,5%. A livello regionale, sono da segnalare l’alta incidenza registrata in Veneto (636) e il carico ospedaliero dell’Umbria (oltre il 30% dei ricoveri dovuti a covid-19) (Ministero della salute).
  • La percezione del rischio legato alla pandemia è comunque in calo in tutto il paese, come mostra la scarsa adesione alla campagna per la seconda dose di vaccino anche tra le persone a rischio, in cui si registra una copertura solo del 25%, e tra i bambini di 5-11 anni, dove è stagnante da mesi al 35%. Per questo il ministro della salute Orazio Schillaci ha preannunciato il progetto di una nuova campagna di comunicazione (Ministero della salute).
  • I ricercatori di tutto il mondo intanto lavorano per conoscere sempre meglio la malattia. Sulla rivista dei neurologi americani Neurology, per esempio, un gruppo di Minneapolis ha pubblicato i risultati di un lavoro con cui ha indagato i dati di 300.000 pazienti, dimostrando che il rischio di convulsioni o di una nuova diagnosi di epilessia nei 6 mesi successivi all’infezione, seppure non altissimo, perché in genere leggermente inferiore a un caso su 100, è comunque maggiore nei malati di covid-19 rispetto ad analoghi casi di influenza. Il dato è superiore nei bambini e in coloro che non hanno richiesto ricovero in ospedale per covid-19 (Taquet).
  • Un altro studio condotto in Francia suggerisce una forte associazione tra la vaccinazione dei genitori e un minor rischio di ricovero per covid-19 nei bambini sotto i 5 anni. La ricerca copre due periodi di tempo, quello dell’ondata delta nell’autunno 2021 e quello della prima ondata omicron a cavallo con l’inizio dell’anno successivo: mentre nella prima fase avere i genitori vaccinati si associava a una riduzione del rischio del 97%, con omicron il dato era inferiore, seppure ancora molto forte (80% rispetto ai genitori non vaccinati), forse rispecchiando la maggiore possibilità che gli adulti si contagiassero e trasmettessero ai figli la variante più contagiosa e immunoevasiva. È importante notare che si tratta di una semplice correlazione, che non tiene conto di molte altre variabili che possono aver influito sui risultati: le chiusure e le altre misure di contenimento della pandemia, l’uso delle mascherine, i comportamenti dei genitori, la presenza di altri fratelli in altre fasce di età (Solignac). 
  • Nelle decisioni che riguardano i bambini (ma anche gli adulti) si continua a sottovalutare il rischio di long covid: un altro studio di coorte che ha confrontato, questa volta in Germania, quasi 160.000 individui di cui quasi 12.000 bambini e adolescenti con diagnosi confermata di covid-19 1:5 con individui dalle caratteristiche simili, ha dimostrato un aumento del rischio di morbidità dopo l’infezione in 13 dominii per gli adulti e in 10 per bambini e adolescenti. Tra questi ultimi era nei mesi successivi oltre il doppio il rischio di fatigue e malessere, quasi il doppio quello di tosse, mal di gola e dolori toracici rispetto ai controlli mai infettati. Tra gli adulti era di oltre sei volte maggiore, sempre rispetto ai controlli, il rischio di anosmia, di tre volte quello di febbre e quasi altrettanto quello di dispnea (Roessler).
  • Su cience Translational Medicine è stata invece pubblicata una ricerca che va a fondo dei meccanismi responsabili della persistenza del danno polmonare dopo l’infezione acuta da SARS-CoV-2, identificando a 3-6 mesi dalla negativizzazione delle alterazioni dell’attività dei neutrofili che possono servire da marcatori del danno e candidarsi come possibile target terapeutico (George).
  • Mentre uno studio pubblicato su PlosOne, sulla base delle osservazioni fatte nei pazienti diabetici, risolleva l’ipotesi di un possibile ruolo benefico della metformina nel contrastare l’infezione, il NICE inglese restringe a paxlovid, tocilizumab e baricitinib i farmaci ritenuti utili contro covid-19 negli adulti. Restano fuori molnupiravir e remdesivir, ritenuti potenzialmente utili ma troppo cari rispetto al beneficio atteso, e tutti gli altri anticorpi monoclonali, in monoterapia o in cocktail, autorizzati in USA o in Europa (sotrovimab, casirivimab con imdevimab e tixagevimab con cilgavimab), ritenuti poco utili contro le varianti attuali (Bramante, Mahase).