Carcinoma epatocellulare, efficacia del lenvatinib nell’esperienza italiana

  • Daniela Ovadia — Agenzia Zoe
  • Attualità mediche
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Uno studio condotto su una coorte di pazienti italiani affetti da carcinoma epatocellulare (HCC) non resecabile mostra che il trattamento con lenvatinib offre un vantaggio di sopravvivenza rispetto al trattamento con sorafenib. Dato che il trial di registrazione e gli altri studi su questo inibitore delle tirosin chinasi di recente approvazione provengono quasi esclusivamente dal mondo orientale, il dato è rilevante per affinare l’algoritmo di trattamento dell’HCC avanzato nel nostro Paese.

Le opzioni terapeutiche per l’HCC non resecabile sono rappresentate dal sorafenib, dal lenvatinib e dalla combinazione atezolizumab-bevacizumab. “Anche se la gerarchia di attività antitumorale tra quest’ultimo regime e gli inibitori multichinasi sorafenib e lenvatinib è chiarissima per molti, la penetrazione nel mercato mondiale della combinazione atezolizumab-bevacizumab è abbastanza limitata per varie ragioni – affermano gli autori dello studio, pubblicato sulla rivista Cancer Management and Research – quindi la maggioranza dei pazienti riceve ancora il sorafenib o il lenvatinib come opzione terapeutica di prima linea per l’HCC avanzato”. Dopo la pubblicazione dei risultati del trial di fase 3 REFLECT, in cui il lenvatinib era risultato non inferiore al sorafenib, sono stati condotti altri studi che hanno suggerito una possibile superiorità del lenvatinib sul sorafenib nei pazienti con malattia meno avanzata. Questi dati sono stati ottenuti nelle popolazioni orientali, lasciando un vuoto di informazioni per il mondo occidentale. “Il lenvatinib è stato approvato in Italia a partire da ottobre 2019 – scrivono gli autori spiegando il razionale dello studio – e ad oggi non abbiamo dati sull’attività e la sicurezza del lenvatinib nella nostra regione”.

La coorte a disposizione dei ricercatori consisteva in 466 pazienti con HCC non resecabile, 322 dei quali trattati con sorafenib e 144 con lenvatinib, seguiti tra il 2016 e il 2021 in 11 centri sparsi in tutta Italia. Al fine di ridurre possibili bias è stato usato il propensity score matching per selezionare 144 pazienti trattati con sorafenib per il confronto diretto con i pazienti trattati con lenvatinib.

La sopravvivenza globale era non raggiunta per i pazienti trattati con lenvatinib e 12,0 mesi (95%CI 9,7-29,1) per i pazienti trattati con sorafenib. Il modello statistico ha mostrato una riduzione del 48% del rischio di morte con lenvatinib rispetto a sorafenib (95%CI 0,34-0,81; P=0,0034). I pazienti trattati con lenvatinib avevano una sopravvivenza libera da progressione (9,0 mesi contro 4,0 mesi) e un tasso di risposta (29,4% contro 2,8%; P<0,0001) più alti di quelli trattati con sorafenib. L’incidenza di eventi avversi era simili nei due gruppi, ma il profilo tossicologico era distinto: gli eventi avversi più comuni con lenvatinib erano fatigue, ipertensione e riduzione dell’appetito, mentre quelli più comuni con sorafenib erano reazione cutanea mano-piede (HSFR), diarrea e fatigue. La dose di trattamento era stata ridotta nel 28,5% dei pazienti di entrambi i gruppi.

L’analisi dei sottogruppi ha infine mostrato che i pazienti in cui la sopravvivenza migliorava con lenvatinib avevano un’età superiore a 70 anni, steatosi epatica non alcolica (NASH) e trombosi della vena porta. Lo studio conferma sostanzialmente quando osservato nel trial REFLECT e mostra che nei pazienti con tumori in stadio BCLC B e C ci si può attendere un maggior beneficio adottando il lenvatinib come prima linea di terapia.