Buone notizie su un nuovo anticorpo anti-beta amiloide per la cura dell'Alzheimer

  • Elena Riboldi
  • Notizie dalla letteratura
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I risultati di un trial clinico di fase 3, appena pubblicati sul New England Journal of Medicine, suggeriscono che l’anticorpo anti-beta amiloide lecanemab possa essere utile per rallentare la progressione dell’Alzheimer. Alla fine del periodo di studio i punteggi relativi al declino cognitivo e funzionale erano infatti migliori per i pazienti trattati con lecanemab che per quelli che avevano ricevuto il placebo. Come già riportato per aducanumab, un anticorpo anti-beta amiloide approvato dalla Food and Drug Administration americana, il trattamento con lecanemab si associa ad anomalie di imaging correlate all'amiloide (ARIA), con edema cerebrale e emorragie, un aspetto che richiede prudenza e attento monitoraggio. Sarà compito dei prossimi studi accertare in modo più approfondito il profilo di efficacia e di sicurezza di questo nuovo farmaco.

Il trial Clarity AD, sponsorizzato da Eisai e Biogen, ha arruolato 1795 soggetti di età compresa tra i 50 e i 90 anni con Alzheimer in fase precoce (lieve deterioramento cognitivo o lieve demenza dovuta al morbo di Alzheimer) con evidenza di accumulo di proteina beta-amiloide. I partecipanti sono stati randomizzati (1:1) per ricevere lecanemab (10 mg/kg iv ogni 2 settimane) o il placebo. L’endpoint primario dello studio, in doppio cieco, era la variazione rispetto alla baseline del punteggio CDR-SB (Clinical Dementia Rating–Sum of Boxes; range 0-18, punteggi più alti indicano un maggior deterioramento cognitivo). I pazienti sono stati sottoposti anche ad altri test per la valutazione del deficit cognitivo (ADAScog14, ADCOMS) e la compromissione funzionale (ADCS-MCI-ADL).

Il punteggio CDR-SB alla baseline era simile nei due gruppi (circa 3,2). La variazione media del punteggio a 18 mesi era 1,21 con lecanemab e 1,66 con il placebo. Una sottoanalisi che ha riguardato 698 pazienti ha mostrato una maggiore riduzione dell’accumulo di proteina beta-amiloide con lecanemab che con il placebo. Anche le variazioni negli altri punteggi erano a favore di lecanemab rispetto al placebo. Gli eventi avversi più comuni erano reazioni al sito di infusione (26,4% con lecanemab e 7,4% con il placebo), ARIA con micro- o macro-emorragie cerebrali o siderosi superficiale (17% con lecanemab e 9% con il placebo) e  anomalie di imaging correlate all'amiloide con edema o effusione (ARIA-E; 12,6% con lecanemab e 1,7% con il placebo). Questi eventi erano più comuni nei primi 3 mesi di trattamento e spesso erano asintomatici.

“Non è ancora stata fissata una definizione di effetto clinicamente rilevante per l’endpoint primario (CDR-SB score), tuttavia il nostro trial ha superato il target prefissato con una differenza di 0,373 punti su una scala da 0 a 18, un valore basale di 3,2 e un punteggio per l’Alzheimer in fase precoce tipicamente compreso tra 0,5 e 6” spiegano gli autori, convintii che i dati di efficacia siano promettenti. Un’estensione open-label dello studio Clarity AD è attualmente in corso, allo scopo di raccogliere informazioni aggiuntive sulla sicurezza e sull’efficacia oltre i 18 mesi.