ASCO 2023 – Se il paziente è un bambino, il dialogo è a tre o più voci

  • Cristina Ferrario
  • Conference Reports
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Si è parlato di bambini nella sessione educativa del congresso annuale della American Society for Clinical Oncology (ASCO) dedicata alla partnership con pazienti e caregiver.

“La classica relazione a due voci che è tipica del rapporto tra medico e paziente adulto, in caso di pazienti pediatrici deve per forza di cose includere almeno una terza voce, quella dei caregiver, che in genere sono rappresentati dai genitori” ha detto Naomi Katz, del Royal Children's Hospital di Melbourne (Australia), autrice della presentazione e primo nome di un ASCO Educational Book dedicato al tema della partnership con pazienti e caregiver lungo tutto il percorso oncologico.

 

Un dialogo delicato e complesso 

Quando si ha a che fare con un paziente pediatrico cambiano alcune regole del gioco. Come ha spiegato Katz, cambia innanzitutto il linguaggio, che deve essere semplice e comprensibile anche al bambino, ma non per questo semplicistico o distante dalla realtà. “Si devono utilizzare un lessico e un tono adatti all’età: si evitano parole brutali o che possano spaventare, si usano immagini facilmente comprensibili e che non turbano il bambino” commenta Carla Fonte, oncologa presso l’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze che ricorda come il minore debba essere coinvolto nelle decisioni e come tale coinvolgimento - dai 7 ani è previsto l’assenso - sia definito da normative specifiche sia a livello italiano (GU 24/06/2003 n. 211 art. 4) che europeo (EMA 2019). “Si deve istaurare un rapporto di fiducia reciproco sia con il bambino che con il genitore e si cerca sempre di creare un ambiente ‘adeguato’, che sia familiare e poco formale” aggiunge l’oncologa italiana. 

L’età del paziente senza dubbio può fare la differenza, ma non è l’unico fattore di cui tenere conto nel creare il giusto dialogo: come ha ricordato Katz, ci sono infatti bambini di 5-6 anni che hanno trascorso la maggior parte della loro vita in ospedale e ce ne sono altri, più grandi in termini anagrafici, che invece incontrano la malattia per la prima volta. Non c’è dubbio che la capacità del paziente di comprendere la malattia e il dialogo su di essa sarà enormemente diverso. “Quando parliamo di pazienti pediatrici, ci riferiamo a una popolazione che può presentare notevoli differenze dal punto di vista di sviluppo fisico e psicologico e che ha bisogni che non possono essere messi da parte quanto arriva la diagnosi sociale ma anche medica” ha spiegato Katz. 

 

Non dimentichiamo il caregiver

Il bambino esiste all’interno della sua famiglia. E uno dei ruoli dell’oncologo pediatrico è quello di creare una sorta di ponte tra bambino e caregiver che spesso hanno visioni differenti, a volte anche opposte, della situazione. “La percezione della gravità dei sintomi cambia. Per alcuni genitori l’alimentazione è al centro della cura e l’anoressia è un effetto collaterale insopportabile, mentre per i bambini la nausea o il non riuscire a svolgere le attività quotidiane pesano spesso più del dolore” spiega Fonte, che poi aggiunge: “Può anche succedere che si creino falle di comunicazione dovute all’istinto di protezione dei genitori nei confronti dei figli e viceversa”. Dal canto loro i genitori devono continuare a portare avanti le attività e nel contempo devono affrontare il nuovo e impegnativo mondo dell’ospedale e della malattia di un figlio. 

“Per noi medici è fondamentale comprendere le dinamiche della famiglia anche prima dell’arrivo della malattia” ha affermato Katz. E in questo difficile contesto, può essere d’aiuto la “shuttle diplomacy”, un processo attraverso il quale medici cercano di fare in modo che i genitori e pazienti si sentano ascoltati e rispettati e possano far sentire la propria voce.