Anticorpi monoclonali e Parkinson, promesse non mantenute
- Alessia De Chiara
- Notizie dalla letteratura
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- Il trattamento con prasinezumab in due diversi dosaggi non ha portato benefici rispetto al placebo a un gruppo di pazienti con malattia di Parkinson in fase iniziale.
- Visti i risultati ottenuti, e quelli emersi da un altro studio di simile progettazione, è possibile che gli anticorpi monoclonali non siano utili nella malattia di Parkinson, o almeno non nella fase iniziale.
In pazienti affetti da malattia di Parkinson in fase iniziale, un trattamento a base di prasinezumab non ha avuto effetto rispetto al placebo sulla progressione della patologia, sia in termini clinici sia in base all'imaging. È quanto mostrano i risultati di PASADENA (Anti α-Synuclein Antibody in Early Parkinson’s Disease), uno studio di fase 2 condotto in Austria, Francia, Germania, Spagna e Stati Uniti, volto a valutare l’efficacia di due dosi differenti nelle persone con malattia nelle prime fasi e che non erano state trattate. Prasinezumab è un anticorpo monoclonale umanizzato in grado di legare gli aggregati di α-sinucleina, una proteina con un ruolo importante nella patogenesi della malattia di Parkinson.
Lo studio, pubblicato su NEJM, riporta i risultati delle prime due parti di PASADENA, quelli relativi alle prime 52 settimane e quelli delle successive 52, mentre la terza parte dello studio, un’estensione a 5 anni, è a oggi ancora in corso. Il trial ha coinvolto 316 pazienti, randomizzati (in rapporto 1:1:1) a ricevere ogni 4 settimane iniezioni endovenose di placebo o di prasinezumab alla dose di 1500 mg o di 4500 mg. Successivamente, nella seconda parte del trial, i partecipanti che avevano ricevuto il placebo sono stati randomizzati a ricevere una delle due dosi di anticorpo.
L'outcome primario era basato sui punteggi ottenuti alla scala MDS-UPDRS (Movement Disorder Society–sponsored revision of the Unified Parkinson’s Disease Rating Scale) a un anno dalla terapia. La scala comprende una valutazione degli aspetti non motori e motori della vita quotidiana, oltre a un esame motorio condotto dal medico.
Nel gruppo placebo è stato osservato un incremento medio di 9,4±1,2 punti, mentre il gruppo prasinezumab a dosaggio più basso e quello che ha assunto il dosaggio più alto hanno mostrato un aumento rispettivamente del 7,4±1,2 (differenza dal placebo –2,0) e del 8,8±1,2 (differenza dal placebo –0,6). I punteggi MDS-UPDRS totali o delle sue singole parti non sono migliorati nei partecipanti inizialmente assegnati al placebo e che poi hanno ricevuto l’anticorpo, rispetto ai pazienti che lo avevano assunto fin dall’inizio.
Non è stato inoltre notato alcun effetto del prasinezumab sul trasporto di dopanima alla SPECT, uno degli endpoint secondari. “La mancanza di effetto può indicare l’assenza di effetto del prasinezumab sulla degenerazione delle terminazioni nigrostriatali” scrivono i ricercatori.
In un editoriale correlato si mettono in risalto le similitudini di PASADENA con SPARK, un trial che ha analizzato l’effetto di un altro anticorpo, il cinpanemab, diretto contro lo stesso bersaglio, e come nessuno dei due studi abbia mostrato alcun beneficio sia negli endpoint primari che secondari. Poiché però gli endpoint secondari non sono aggiustati per confronti multipli, non è possibile trarre conclusioni. Come sottolineato dall’autore, sebbene questa potrebbe essere la “fine degli anticorpi monoclonali" per il trattamento della malattia di Parkinson in fase iniziale, non è da escludere che farmaci simili possano funzionare nella fase prodromica o nelle forme genetiche, oppure che altri meccanismi agenti sugli aggregati di α-sinucleina possano risultare utili.
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